Archivi del mese: settembre 2014

Chi non parla in compagnia

Furoreggiano, in questo nostro tempo che ha mandato in discarica ogni formula dubitativa, le affermazioni perentorie spesso basate su immagini o metafore preferibilmente sportive, ma non solo. E troppi si adeguano.
L’effetto di questa tattica comunicativa è, per ora, innegabile: si evita di articolare un ragionamento argomentato e condotto a rigor di logica e si delocalizza la discussione spostandola in un ambito familiare a chi parla spiazzando, nel contempo, l’interlocutore che viene colto di sorpresa o infastidito.
Ad esempio quando Renzi disse che ai politici corrotti si doveva “dare il daspo (D.A.SPO. ) “ molti sapevano a cosa alludesse, altri (me compresa) no, ma ottenne un grande effetto forse più che altro emotivo. Probabilmente qualche anima sagace si figurò l’umiliante esclusione dalla scena di politici-teppisti e legittimamente ne godette; sappiamo tuttavia che le cose non andarono e non stanno andando affatto così.
Oggi il ragazzo-premier (come lo chiama Diego della Valle) ha detto tante cose, ed ha poi buttato in caciara, come si dice a Roma la definizione della differenza tra sé e i suoi e gli oppositori all’interno del Pd con una frase assertiva non troppo logica, né coerente al contesto, né rispettosa dei dissidenti ma d’un certo effetto : “Chi non la pensa come la segreteria non la pensa come i Flintstones. Chi la pensa come la segreteria non è emulo di Margaret Thatcher ”.  Ah ecco.Da un lato Wilma dammi la clava, dall’altro la Lady di ferro? E in mezzo, magari, il Mago Merlino con Semola?
Potremmo anche ricordare alcune recenti perle di supponenza di Serracchiani  secondo cui i diritti dei garantiti sarebbero privilegi contro i non garantiti. Anche queste sono affermazioni indimostrabili e illogiche; infatti forse togliere ai cosiddetti garantiti e quindi renderli non garantiti costituirebbe un aiuto a favore di altri?
E poi c’è la moda o meglio il vezzo, assai condiviso dai comuni utenti del web, di ripristinare il vecchio principio di autorità, che si sperava archiviato per sempre, mediante il link o  la citazione. Foto choc, aforismi, link di autorevoli noti sono usati con prodigalità esentasse. Ma qui mi fermo. Ho superato i 140 caratteri, non vorrei superare le 140 righe. Solo un desiderio: si insegni la logica ai bambini fin dalle elementari; le lingue le studiano già (Giannini…) ma oltre al linguaggio sarebbe importante, e più utile delle regole troppo pedanti, insegnare a non farsi incantare dai falsi ragionamenti e a smascherare gli imbroglioni del discorso emotivo e ben illustrato.
Che fantastica storia è la vita, nevvero?

Ritrovare le chiavi della Bastiglia

simbolo

Dobbiamo ritrovare le chiavi della Bastiglia.
Sappiamo tutti molto bene che la cosiddetta presa della Bastiglia fu, come scrive George Lefevre, “un evento in sé mediocre”; ma sappiamo anche che quello, come tutti gli eventi che irrompono a cambiare il corso della storia e, in questo caso, ad infrangere un simbolo di un potere secolare e temuto, fu un evento che segnò un momento di non ritorno e che trasmise in tutto il popolo di Francia, nel giro di pochi giorni, la certezza che ci si poteva ribellare alla Monarchia e dunque al potere. Tanto è vero che già quel giorno il re meditò la fuga.
Scrivendo che dovremmo ritrovare le chiavi della Bastiglia intendo proprio questo: sarebbe ora di cambiare mentalità e di capire che non è vero che non si può far nulla, non si può far altro, non c’è alternativa”, e via dicendo.
Il cambiamento strombazzato non è che un falso cambiamento, è una finta riforma, è un ulteriore trasmettitore di ulteriori privazioni. E infatti stiamo sempre peggio, abbiamo meno lavoro, meno tutele, meno soldi, meno sicurezza.

Svegliamoci.

In caso di pioggia la rivoluzione si terrà al coperto (*)

 Se è vero , ed è vero, che le competenze specialistiche di ambito economico o scientifico forniscono esatti strumenti e preziose conoscenze tecniche è anche vero, e spesso lo si può rilevare, che una formazione umanistica e storica ci dota di una possibilità di interpretare ciò che accade da un punto di vista prospettico che comprende la possibilità di dedurre e confrontare.

Per questo spesso dissento non dalle analisi, ma dalle conclusioni di chi parla di crisi, denuncia il fallimento della mia generazione e l’esclusione dei giovani e si lamenta dell’incapacità di sindacati e politici di leggere i cambiamenti e fronteggiarli.  Su questi argomenti c’è, ad esempio, un recente articolo che titola: Perché è giusto abolire l’articolo 18 (naturalmente l’affermazione è provocatoria) che penso meriti di esser letto.
Nel merito di alcune affermazioni risponderei così.

a) Contesto che : “ nessuno, dalla politica ai sindacati, è stato in grado di leggere i cambiamenti in atto e di affrontarli nel giusto modo. “

Non è vero, secondo me: i fatti dimostrano come politica e sindacati abbiano letto benissimo i cambiamenti; e qualcuno di noi “vecchi” ha anche provato a denunciarli sia con la propria vita, sia con le proprie parole. In realtà quei cambiamenti sono stati voluti, cercati, approvati anche dai sindacati. Non a caso i nostri sindacalisti, lustri e sorridenti, abbaiano come cani da pagliaio, ma siedono in posti di potere e  alla stessa mensa del potere. Quanto alla politica, che ce lo diciamo a fare? Sono proprio i politici che hanno continuato ad ingrassare vivendo alle nostre spalle e continuando a tassarci e tagliare; per quale motivo avrebbero dovuto volere qualcosa di diverso quando per loro, e solo per loro, cambiava sì, ma solo in meglio?

b) L’articolo dice: ” Se credete che questo [abolizione art 18] serva a rilanciare l’economia, dunque se lo facciamo per i nostri figli, facciamolo”. Facciamo cosa? Nessuno ha potuto dimostrare che l’abolizione serva a rilanciare l’economia. I nostri confindustriali lo chiedono per togliere non per dare lavoro.  Anzi, come hanno detto recentemente illustri studiosi l’economia è collassata, in Italia, per altri motivi tra i quali quelli evidentissimi ossia la corruzione, le mafie, l’incapacità stessa di innovare e fare ricerca, l’inedia di molti imprenditori che ereditano e sperperano imperi economici, le misure sciagurate che hanno incentivato la delocalizzazione

c) L’atteggiamento di chi dice: “andiamocene da dall’Italia” è ben comprensibile, giustificato e ragionevole e lo consiglierei anche io: ma, attenzione, consideriamone le conseguenze.
Non è così che si cambia o riforma un sistema iniquo, sfruttatore, corrotto. Andando via si scappa. Ripeto, è anche giusto scappare, ma allora non ci lamentiamo di generazioni precedenti o diverse. Ognuno si tenga il suo coraggio o il suo non essere eroi.

d) La mia generazione, ad esempio, avrebbe voluto cambiare il mondo e molto abbiamo cambiato in meglio, molto  lo abbiamo fallito. Abbiamo cambiato in meglio molte cose fondamentali e, da donna, dico che tante conquiste le abbiamo ottenute. Non abbiamo potuto fronteggiare nemici sovrastanti che hanno fatto leva su poteri sottovalutati, i soliti mostruosi media. Sono proprio i messaggi dei media che fanno paura e fanno dire: “andiamocene”. Attenzione dunque, il vecchio proverbio dice: nemico che fugge, ponti d’oro. E c’è un evidente perché.

e) Non vorrei sembrare patetica, ma non me ne importerebbe più di tanto: i nostri padri (in senso esteso) hanno dovuto affrontare qualcosa di più di una crisi economica. Hanno subìto due guerre mondiali, hanno vissuto in un mondo in cui il lavoratore era ancora uno schiavo che lavorava senza regole né alcuna garanzia dall’alba al tramonto, hanno lottato con coraggio, si sono esposti e si sono ispirati a principi di mutua solidarietà. Non si sono pianti addosso. I nostri padri hanno anche fatto la fame quando gli scioperi erano reati, per i quali si andava in galera. Hanno subìto discriminazioni per razza, religione, cultura, origini economico-sociali diverse. E quando dico “i nostri padri” parlo del popolo, dei cittadini comuni, non dei potenti al potere che avevano ancora la mentalità del Marchese del Grillo. Quelli che si andava a guardare mentre passavano con le berline lussuose o mangiavano il gelato in piazza.
Oggi cosa si fa? Si riordina la cabina armadio e poi protesta con urla o si sbraita sui social forum. Ma non basta purtroppo.
Oppure si manifestano fieri propositi, poi va al voto e, con la scusa del meno peggio, si vota una lista bloccata. Concludo, e chiedo scusa per il lungo discorso, con un accorato appello: cari giovani è vero questo mondo fa schifo; i vostri genitori mettono zeppe dove possono e soffrono per un fallimento che è anche sulla loro pelle, sui loro progetti, sulle loro costruzioni di vita. E’ vero, questa società escludente è odiosa, ma non potete attribuire la colpa solo agli altri, qualcosa noi lo abbiamo fatto e anche se non abbiamo ottenuto un mondo giusto e solidale non si può chiedere alla mia generazione di fare una rivoluzione in conto terzi. La storia vi potrebbe raccontare tanto altro e vi aiuterebbe a parlare del passato lontano e recente con maggior cognizione, la letteratura vi potrebbe offrire rappresentazioni dell’animo e della natura umana: l’uomo senza educazione è anche senza qualità. Spesso poeti e scrittori hanno visto, previsto e rappresentato quello che accade o ri-accade: conoscerlo è interessante, fidatevi.

Per finire: oltre ai sacrifici abbiamo conosciuto l’ironia e, grazie ad essa, una volta dicevamo sfottendo: in caso di maltempo la rivoluzione si terrà al coperto. Adesso la tengono sotto chiave, all’ospizio dei vecchi. Anche se abitano su colline o colli arieggiati.

(*)Raccolgo qui di seguito, e rielaboro, qualche riflessione che ho sparso in fB. 

Merito e utilità del far scuola

Se è vero che sbagliato dire solo no e rifugiarsi nel passato è anche vero che innovare dovrebbe significare (provo a definire) fare ricerca per confutare, dove ci siano, gli errori e proporre nuove soluzioni, strade ed idee.
Nell’ambito educativo e dell’istruzione scolastica non possiamo dire solo no al merito e alla meritocrazia, ma dobbiamo pur riconoscere che una selezione di tipo meritocratico non è, di per sé, né innovativa, né uno strumento per insegnare/imparare meglio, né per educare; al massimo potrebbe esser considerato uno strumento per vagliare e selezionare in base ad un solo criterio; quello, appunto del merito.
E tuttavia dicendo così parliamo ancora in modo molto generico.
Infatti se non definiamo cosa sia merito e  (non meno importante)cosa il demerito stiamo già affondando nella palude delle parole dette a vuoto: prima di disegnare figure esatte occorre squadrare il foglio ossia, in questo caso, dare un senso alle parole.
Ad esempio:
1) uno studente è meritevole in quanto portatore di un patrimonio di qualità? E quali?
2) chi è meritevole riesce ad esserlo in ogni tipo di scuola, in ogni disciplina e con ogni insegnante del suo corso di studi?
3) il merito coincide con il successo scolastico?
4) dove individuiamo il merito nel processo educativo che prevede almeno due attori o, se vogliamo, due funzioni: quella di insegnare e trasmettere (dunque attrarre attenzione/interesse) e quella di apprendere ossia ricevere (e rielaborare)? Può esistere da una parte sola? Come e quando è diversificabile?
Questo breve elenco è imperfetto, abbozzato e parziale. 

Sono tante le variabili che potremmo osservare.Ma poi esiste la pratica. Molti bravi insegnanti (1) si muovono, di solito, con la prudenza ma anche con l’audacia di bravi esploratori che sanno quale sia la meta, rileggono e tarano giorno per giorno gli strumenti, ne inventano di nuovi, si confrontano con la realtà, raccolgono esperienze.Una base di una ricerca volta a confutare gli errori del passato e a cercare nuove e migliori strade per il futuro dovrebbe tener conto degli ultimi quattro secoli di ricerche ed esperienze pedagogiche. Ma non volendo essere pedanti possiamo almeno desiderare che chi si proponga con responsabilità direttive in questo ambito evitati scivoloni o errori di stile e contenuto tenendo presente almeno gli studi dal positivismo pedagogico ad oggi, poco più di centocinquant’anni, fondamentali.

E il merito allora? Certamente; quello della medaglia di primo della classe ci commuove ancora, perché no?
Tuttavia non sono quelle le sole lacrime che la scuola può far versare.
Il merito ci piacerebbe, ci piace: come insegnante anche a me sarebbe piaciuto esser considerata meritevole, ne avevo anche qualche titoluccio, e la vanità fa il suo lavoro. Ammettiamo tuttavia che non si insegna per sentirsi bravi, caso mai per sentirsi utili. Lo stesso desiderio di utilità non ci piacerebbe anche tra le doti ed i meriti di bravi ministri miur?
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(1) Sull’argomento può esser utile il resoconto di una discussione svoltasi nell’ambito del network La scuola che funziona fondata da Giovanni Marconato: “Il bravo prof