Archivi del mese: dicembre 2022

Ieri qualche coccio, oggi solo immondizia

Sembra decaduta la vecchia usanza di gettare, a mezzanotte del 31 Dicembre, oggetti dalla finestra.
Invece nei primi anni del secondo dopoguerra, e fino agli anni sessanta del novecento, sarebbe stato imprudente, nelle città e qualche paese del Centro Sud, avventurarsi per strada intorno alla mezzanotte e a seguire nelle ore in cui si festeggiavano la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno.
Anche a Roma poteva accadere di trovarsi in strada rischiando di essere bombardati da bottiglie, vecchi arnesi di vetro o ceramica (compresi quelli da bagno) o qualunque oggetto potesse fare rumore andando in frantumi.
Per adeguarsi alle usanze locali nella mia famiglia tenevamo da parte qualche vecchia lampadina ormai esausta, poca roba, e partecipavamo al rito. Eravamo cauti e controllavamo che non ci fossero avventurosi passanti, ma il piccolo scoppio che faceva la lampadina dava una piccola soddisfazione.
Certo l’uso era del tutto discutibile.
Oggi è sostituito da più costosi fuochi d’artificio e da esplosioni botti potenti e fastidiosi o addirittura terrorizzanti per animali domestici e a volte anche talmente esagerati da costringere incoscienti e improvvisati artificieri a ricorrere al Pronto Soccorso ospedaliero.

Ma c’è un risvolto, forse, imprevedibile in passato. Infatti gli strati di cocci di bicchieri, bottiglie e lampadine che coprivano le strade, che foravano pneumatici e costringevano gli spazzini comunali, fin dalle prime ore del primo gennaio, terminate le spelacchiate follie di quegli anni, a un lungo lavoro di ripulitura non ci sono più, ma sono stati sostituiti da rifiuti gettati attorno ai cassonetti, lungo i marciapiedi e fin nei bordi delle strade di città. In compenso questo vale 365 giorni all’anno. Troppa grazia?
Spazzini? Che nostalgia. Passano mezzi municipali con un sistema di svuotamento meccanico dei cassonetti mentre il repellente tappeto di immondizia rimane a terra, prospera, si moltiplica e si intiepidisce al calore di questo inverno insolitamente mite e brulica della vita misteriosa di batteri, insetti e voraci creature da fogna e non . Però pare che ai più grossi animali si potrà sparare.
Personalmente sconsiglierei di farne un uso alimentare. Ma non garantisco.

Amor di Terra

Era una vera casa, il sole vi sorgeva e vi tramontava, la notte e il mezzogiorno si alternavano con turni regolari. Era una casa su una collina tra tante colline e con una grande corona di montagne a ponente, come a chiudere l’orizzonte. Era una casa che in primavera si metteva una gonna di fiori spontanei mai sazi di colori e di insetti ronzanti.
Era una casa di mattoni, col tetto di coppi cotti in fornace, con due finestre in ogni stanza e tanta ma tanta luce.
Era una casa rasserenante, limpida, impertinente per il suo sfidare i venti, il sole, il freddo ed anche la primavera, nascosta così com’era da un grande scialle di alberi che avevamo piantati tutt’intorno.
Era una case dove la modernità della comunicazione telefonica, degli elettrodomestici o della rete si stemperava quasi sciogliendosi nel calore ardente delle stufe a legna e dei camini fumanti.
Era una casa arredata mettendo insieme occasioni, traslochi in tempi diversi, mercatini, qualche regalo di roba che nessuno voleva più, ma noi sì.
E c’era anche un locale specialissimo al piano terreno perché la casa era su due piani e dove, dopo averlo ristrutturato, pulito e piastrellato recuperando materiali, s’accumulava la parte migliore delle nostre attività.
Attrezzi per la coltivazione agricola insieme a quelli per piccoli e grandi lavori, c’erano infatti anche un trabattello per pitturare in alto insieme a barattoli di acqua ragia, di solventi, di grasso per lucidare o lubrificare serrature, congegni, cerniere.
In quel locale al piano terra, tutto finestrato verso il panorama dei campi e degli alberi da frutto,  c’erano anche vecchi armadietti pensili di metallo, recuperati da qualche vecchia cucina, scelti perché inespugnabili da eventuali incursioni di creature campagnole, dove tenevamo le bottiglie per fare d’estate il nostro pomodoro in salsa e anche i barattoli per le marmellate di ciliegie, di albicocche, di prugne di gelso, di prugne di susino, di pesche.
Niente e nessuno mi potrà restituire quella casa desiderata, messa a nuovo, amata, amatissima e lasciata solo perché la vita e le sorti che ne nascono non sono sempre buone con noi. E non tutti abbiamo lo stesso sentire.
Invece noi con la casa eravamo stati buoni amandola, curandola, agghindandola semplicemente pezzo a pezzo, anche a caso, ma seguendo sempre un percorso d’amore.
E basta. Invece no, non basta. Dirò anche delle splendide fioriture bianche degli alberi di prugne selvatiche, nati spontaneamente e difesi dalle ragioni della cultura contadina, e delle fioriture delicate fino alla magia più impalpabile del melo, di quelle quasi prepotenti del ciliegio e dell’albicocco.
Luce, tutto questo, che ora si nasconde nei ricordi, luce che ha catturato il sole e non smette di dire che l’infinito andare del tempo e delle sue benedette stagioni travolge tutto, anche noi, ma credo che non spegnerà mai loro.
La vita potrebbe continuare se amassimo anche noi la terra, come lei ci ama.

Rovaio, ossia tramontana

Scende dai monti

Accade che parole suscitino pensieri. A volte una sola parola, raccolta casualmente da un discorso banale, innesca una reazione della memoria. Non solo le forme, i profumi o le situazioni, ma anche solo una parola può iniziare una reazione di catena di pensieri.
Ci sono parole particolarmente evocative: quelle come amore, pace, guerra, gioia o fame e così via sono tanto pesanti e importanti quanto, alla fine, purtroppo e troppo usurate.
Poi ci sono parole che stavano come scolorendo nella memoria e che, con un guizzo imprevedibile, accade di ascoltare.
M’è accaduto con la parola rovaio, colta in una domanda di un quiz televisivo.
Una caterva di memorie, prima confuse e incerte, poi via via più precise e definite si sono fatte avanti dentro di me.
Rovaio? Giovanni Pascoli, certo, in più di una poesia.
E a seguire il senso. Rovaio ovvero vento del nord, freddo, impetuoso: comunemente detto tramontana.
E quindi sì, la tramontana e mi sento di nuovo camminare al freddo che scende dal nord e dai monti, già all’inizio dell’inverno, con papà. Un cappellino di lana in testa, pantaloni e scarpette che non riparavano dal freddo. E vorrei sentirlo ancora quel vento freddo che frugava sotto il cappotto e arrossava le guance e il naso. Un freddo pungente, schietto, pulito, asciutto. Le strade sempre quelle di una città circondata da mura medievali. Mi piaceva camminare con papà mentre mamma e sorella, le pavide! rimanevano in casa.
Dov’è oggi quella tramontana? Sono sicura che nasca da qualche monte nevoso ma che si sgomenti incontrando le nostre città e giri per luoghi più degni. Certo gira per quelle colline dove le case non sono blindate da finestre e porte efficienti, certo fischia ancora nei camini antichi e sibila tra onesti infissi di legno.
Guance rosse come mele, ginocchia bianche di freddo, una mano in tasca e l’altra stretta in quella grande di papà.
Amo le parole, amo la parola rovaio, brividi di emozione non compensano quelli del freddo schietto e pulito della tramontana che fischiava nella mia infanzia. Ma la magia delle parole restituisce presenze e conforto: qualcosa che non si cancella.

La Luna e l’Abete

I poeti si sono chiesti dove fosse la luna, hanno provato a interrogarla, se ne sono lasciati ammaliare, hanno immaginato di raggiungerla volando, hanno immaginato il “mal di luna” come una superstizione o ne hanno fatto dominatrice di sabba o sogno di amanti, l’hanno sempre desiderata quasi immergendosi nella sua luce indefinibile e magica. Per non parlare dei musicisti.
Nessuno può guardare la luna rimanendo indifferente, specie a Natale.
E se d’estate la luna sorge quasi offuscata dalla lunga luce di giorni interminabili, d’inverno invece appare amica e guida tempestiva di sere e notti che appaiono troppo lunghe quando aspettiamo, insonni, la luce del giorno.
In questi mesi di guerra, di popoli senza più luce né calore io immagino le notti di persone disperate e tremanti, immagino piccole luci fumose sotterranee e maleolenti.
Ma penso anche: dov’è la luna per loro? Immagino che quella luce della luna, seppure avvelenata da esplosioni che angosciano, uccidono e ammorbano anche i cieli delle campagne e delle pianure, sia una loro amica silenziosa, forse l’unica.
Di notte, quando la luce chiama i semi a germogliare, le piante a crescere, le rugiade a condensarsi in gocce dissetanti le zolle e le foglie, di notte le creature umane, animali, vegetali e perfino i solchi di terre violate cercano, io penso, la luna e si protendono verso di lei.
Anche oggi, come ieri e come sempre.
Dov’è la luna? Lei sta al suo posto nel movimento cosmico infinito e silenzioso.
Ho una vecchia foto di un abete che con i suoi rami si tende verso la luna quasi a sfiorarla mentre lei ride nel cielo.
Spero che quel sorriso illumini la conversione dalla guerra alla pace, dalla ferocia agli affetti.
Lei aspetta.