Archivi del mese: gennaio 2011

Storia di ETTORE : Segnali di vita per il cambiamento – di Mariaserena Peterlin

Dedicato a tutti quelli che pensano che non si impara solo ascoltando.

Sfoglio, a volte, gli album con le foto del tempo già vissuto.

Ad aprirli ci vuole la frazione di secondo, ma poi è come entrare nella macchina del tempo e volerci rimanere.

Guardo le immagini e mi arrivano pensieri, come una musica con parole a lungo sedimentate che continuano a parlare di cambiamento. Una canzone.

Il tempo cambia molte cose nella vita

il senso le amicizie le opinioni

che voglia di cambiare che c’è in me

si sente il bisogno di una propria evoluzione

sganciata dalle regole comuni

da questa falsa personalità.

L’effetto è quello di guardarsi allo specchio in modo diverso e riconoscersi in quell’immagine, o forma, ritrovando se stessi come si è dentro, e non come qualcosa da esporre agli altri.

Una nostra comune immagine riflessa (dove, come diceva un vecchio film, non c’è mai la verità perché quel che è destra è sinistra e quel che è sinistra è destra) non sempre ci appaga.

Invece, se scrutassimo nello specchio degli occhi dell’animo, io credo che quello che vediamo potrebbe piacerci.

No, non si tratta di rimpianti o nostalgia.

Si tratta di voler bene ciò che siamo e, in buona coscienza, ciò che siamo stati.

Per questo non cerco mai nessun surrogato del paradiso, per questo non voglio dimenticare nulla.

Il tempo, è vero, cancella e cambia molte cose, ma solo ciò che non abbiamo davvero vissuto a cuore aperto, mentre ci fa anche amare di più tutto ciò che, come naufraghi senza tempesta, vogliamo ostinatamente portare con noi.

Guardo, adesso, immagini scattare negli anni settanta, lo stesso periodo in cui sono nate le mie figlie, tuttavia io le vedo e sento simili a quelle della mia infanzia; mi convinco che non sarebbero troppo diverse e penso che sarebbe bello se in tanti si cominciasse ad aprire i nostri cassetti per mettere in circolazione tutte le vecchie foto riposte tra ricordi e sentimenti.

Ci sono stati anni in cui tutto cambiava e il modo progrediva velocemente, ma il fondo dell’animo delle persone conservava un patrimonio di memorie e cultura, sentimenti e tradizioni.

Ci sono stati anni in cui non siamo stati anime invase e sopraffatte o indifferenti.

In quegli anni lo specchio era un oggetto ma era anche vanitas  e un ragazzino si vestiva e metteva in ordine perché e come le mamme volevano fosse in ordine, e non come lo voleva la nike o un’altra marca qualsiasi e televisivamente permeante.

E certamente non ci si vestiva o metteva in ordine per videizzarsi col telefonino.

No, ripeto: Non si tratta di rimpianti o nostalgia.

Si tratta di amare quello che siamo e, in buona coscienza, ciò che siamo stati e siamo rimasti senza tradimenti.

Si tratta di lasciar parlare immagini da cui c’è ancora tanto da imparare su noi stessi.

E’ con questo stato d’animo che mi sono ritrovata a guardar quelle ed altre immagini e ho chiesto di conoscere le storie che racchiudevano. Alcune me le hanno raccontate.

Un racconto o una narrazione sono come un filo che si svolge meticolosamente da un gomitolo ben ordinato per diventare trama e tessuto artigianale o una maglia lavorata punto per punto.

Ognuno ha una mano diversa e il tessuto o la maglia che sto costruendo io non potrà essere uguale ad un’altra.

Ma in questo modo abbiamo già spezzato, senza rumore e definitivamente, un anello della catena dell’omologazione che ci ha portato dal mondo del sentimento e della ragione a quello della vanitas e del vuoto, che prima rifuggivamo.

La storia che mi racconta, ad esempio un insegnante di una scuola sportiva è uno di quei fili di gomitolo che diventa una narrazione o tessuto. Sarà uguale e diversa? Non nella sostanza.

Parla di Ettore, undici anni, che partecipa, nel dicembre del 1976  alla Corsa delle tre contrade organizzata dalla Scuola Sportiva DEPA di Palermo. Un dicembre palermitano mite, commenta il suo insegnante. 

Nella foto, bellissima, si vedono tre ragazzini ed Ettore è il più alto. ettore Ha un fisico asciutto e non sorride, ha i capelli un po’ arruffati e sembra affannato a differenza dei suoi compagni che sembrano tranquilli  pur se presi dalla situazione.

Il filo del gomitolo si dipana, e l’insegnante, perché questa storia dobbiamo narrarla insieme, mi racconta.

Ettore è nato in una famiglia che per tradizione ha lavorato con gli animali. Negli anni sessanta e settanta in seguito alla grande cementificazione del nostro quartiere che si estende dalle falde del Monte Pellegrino sino al mare, molti dei gruppi familiari che vivevano di allevamento del bestiame, continuarono questo lavoro non più in zone adibite a pascolo ma in stalla. Ettore ha aiutato la famiglia in questa fase. Lo ha fatto abbeverando le mucche, dando loro il fieno ed altri vegetali, aiutando il padre a trasportare l’erba raccolta alle pendici del monte, pulendo la stalla, distribuendo il latte munto presso le famiglie che lo richiedevano.”

Dunque quel bambino quindi frequenta la scuola elementare e segue le lezioni; per lui sedersi al banco è come tirare un sospiro di sollievo e riposare il corpo per dare aria alla mente.

Nei periodi scolastici Ettore doveva svolgere parte di questi lavori durante la giornata, cercando di seguire anche le lezioni e di fare anche i compiti.”

Ettore cresceva sano e robusto e, come è naturale che sia, provava un po’ d’invidia per gli altri ragazzini che non avevano di queste incombenze di lavoro.”

Afferro quel filo e vedo Ettore correre verso la scuola sportiva e materializzarsi al fianco dei suoi insegnanti. Lo vedo sbrigarsi a finire con il bestiame, incombenza faticosa e che richiede accuratezza e precisione, per non perdere la possibilità di far parte di un gruppo e di seguire i suoi maestri.

Per lui questi contatti sono ossigeno ed entrare nel campetto per presentarsi ai maestri è come spiccare finalmente il volo.

Parallelamente penso che ragionare sulla sua condizione di bambino che aiuta la famiglia nel lavoro quotidiano e forse lasciarsi andare a giudizi anacronistici e moralistici parlando di lavoro minorile non abbia, oggi, nessun senso. La nostra presunzione moralista, dopotutto, si ferma sulla soglia di casa nostra e comunque lasciamo che il mondo vada come va.

La condizione della vita quotidiana di Ettore era quella e non per scelta o accanimento, ma per ragioni storiche che dobbiamo accettare come tali.

L’infanzia di oggi appare più tutelata ed ha garanzie formalmente diverse. Ma sulla probabilità che sia realmente più felice e fiduciosa sul senso dell’esistenza o che cresca genericamente meglio, abbiamo semplicemente staccato il tagliando di una scommessa che è tutta da verificare.

Ora capisco quell’aria spettinata e lo sguardo che interroga e non dà nulla per scontato.

Ogni attimo di scuola che per gli altri è un impegno per lui è invece un premio.

Alla DEPA “ mi dice ancora l’insegnante,“assieme alle attività proprie dei corsi della Scuola Sportiva abbiamo proposto gare di corsa, meeting di atletica leggera, tornei di calcio, etc con la partecipazione aperta a tutti i ragazzini del quartiere. Ettore, grazie a queste attività che hanno avuto sempre una valenza educativa, ha trovato l’ambito dove essere alla pari con gli altri ragazzini. Nei suoi periodi “liberi” ce lo ritrovavamo accanto sempre pronto ad accogliere il nostro assenso ad includersi nelle attività dei corsi.”

Mi spiego anche le spalle e del ragazzo, nella foto leggermente curve, come se  stesse per assumere la posizione di partenza e al tempo stesso si rilassasse in attesa dell’impegno di una competizione attesa e anelata. Mi spiego lo sguardo consapevole, da adulto.

Le parole del suo insegnante documentano i fatti.

“Ettore quando ha partecipato alla gara aveva 11 anni e frequentava la quinta elementare. La distanza della corsa era di circa 2 Km ed Ettore si è classificato tra i primi. Il percorso della gara lo abbiamo modificato per farla passare davanti la stalla di Ettore.

Lui aspetta dunque solo il via per lasciar correre gambe e cuore, per slanciarsi a perdifiato gareggiando lungo le strade delle tre contrade, per confrontarsi con i compagni e magari accelerare al massimo negli istanti in cui passa davanti alla stalla della famiglia orgogliosa della sua partecipazione.

Un passero, con il cuore grande, da uomo.

Dopo la corsa tornerà a casa felice e continuerà il lavoro, finirà i compiti e si preparerà al riposo con la mente rivolta al suo domani che, lui spera, sarà diverso da quello di tutti gli altri.

Segnali di vita nei cortili

e nelle case all’imbrunire

…..

“Inutile dire che noi insegnanti della DEPA tifavamo in modo un po’ velato per la vittoria di Ettore.”

Tifiamo anche noi, seppure a distanza perché ora il tempo si è annullato e negli occhi di tutti c’è solo il numero 34 sulla maglia di Ettore, quel ragazzino asciutto che “dialogava con gli sguardi, con il sorriso maturo e intelligente, con la sua presenza sempre composta e che esprimeva fiducia, dialogava con la sua ricca e forte motricità”.

La mattina della Corsa delle tre contrade Ettore svegliandosi non poteva sapere che dopo tanti anni si sarebbe ancora parlato della sua partecipazione alla gara. Ma anche se lo avesse saputo avrebbe probabilmente scrollato le spalle e pensato solo che si doveva sbrigare il più possibile per anticipare il lavoro.

Ettore, un nome di famiglia, ma anche dell’eroe omerico che rappresenta insieme il mito della pietas famigliare e del coraggio ardito; Ettore 11 anni e tanti sogni a lui stesso indistinti.

Ma l’impresa lo attende e non c’era tempo per pensare perchè uno dei suoi sogni è ora a portata di mano.

Dunque si alza dal letto alla svelta peressere puntuale, alle nove nsieme agli altri ragazzi. Si veste: scarpe, calzoni lunghi, una maglietta su cui era già stato attaccato quel numero che è solo suo.

Non era tempo di divise quello, né di maglie con lo sponsor o di marche con grandi firme: per tutti bastava la solita semplice maglietta e la determinazione ad esserci. I ragazzi di quegli anni sono ancora solo ragazzi, simili a quelli della via Pál.

Non posso impedirmi di pensare ad una qualsiasi corsa di ragazzini oggi: denari e tempo da spendere per scegliere il look, la famiglia mobilitata, una colazione da campione del mondo in trasferta di lusso, le videocamere e telefonini in azione, parenti disposti lungo il percorso (in alcuni casi predisposti alla competizione o ad un tifo esagerato essi stessi).

E poi?

Poi nulla, si spengono le luci e molti non si chiedono

“ti accorgi di come vola bassa la mia mente?

E colpa dei pensieri associativi

se non riesco a stare adesso qui.”

Corri dunque Ettore!

Siamo stati, e vogliamo ancora essere, simili a te; non certo migliori.

Corri ancora Ettore perché la tua corsa è passione per la vita e le nostre anime non temeranno di specchiarsi nel vuoto.

(Fine anni cinquanta, ero ragazzina, e giocavo a campana o correvo dietro a un palla. Ma prima di poter andare a giocare dovevo lavare i piatti e fare tutti i compiti. Appena era possibile scendevo subito sotto casa dove si giocava tutti all’Iliade.

Sì perchè in prima media si studiava Omero, e nei cortili e nei campi della periferia della città dove vivevo allora noi passavamo i pomeriggi formando bande di Achei e Troiani. Io ero un guerriero acheo e avrei voluto essere Achille, ma quel ruolo spettava a Sergio, un ragazzino che si era procurato uno scudo di cartone (fatto con un piatto di quelli su cui appoggiare le torte di pasticceria) con relativa spada. Battaglie, scontri, duelli: corse e sassate. Il ruolo di Ettore era, ovviamente, di un ragazzino  della banda opposta. Oggi vorrei essere nella sua.)

Segnali di vita nel cortile

e negli spazi all’imbrunire

le luci fanno ricordare

le meccaniche celesti.

FINE DELLA STORIA

SULLA PACE E IL MESTIERE DELLE ARMI – di Mariaserena Peterlin

Siamo ormai all'abitudine: i soldati italiani in missione di pace muoiono, esattamente come tutti i soldati di tutte le guerre. Pubblico oggi qui una lettera che scrissi e consegnai a tutti i miei studenti di quinta A telematico il 30 Novembre 2003 – Spero mi abbiano ascoltato . Oggi non cambio nemmeno una virgola.

In questa nota taggo, insieme a qualche amico adulto a cui chiedo di sopportate la mia invasione, qualcuno dei miei ragazzi presenti su fB. So che loro non hanno dimenticato e comunque confermo il mio affetto per tutti i giovani.

 

Lettera ai miei alunni sulla pace e sul mestiere delle armi

 

Cari Adriano, Andrea, Gabriele, Federico, Riccardo, Matteo I., Giorgio, Matteo L., Fabio, Nicola, Roberto, Davide P., David, Daniele, Riccardo, Davide Z.,

ma anche cari  Umut, Mauretto e Fabio S.

QuintaA_dic_2003

Ci conosciamo da tre anni e credo che ci siamo sempre parlati apertamente. Quando in classe si sono sentiti i miei rimproveri e le vostre contestazioni, quando sono volate battute o esortazioni, quando avete alzato cori trasgressivi o meno, quando avete scavalcato le finestre (per fortuna dal piano terreno) per esibirvi o sfuggire presunte interrogazioni, quando avete mostrato insofferenza o approvazione, insomma in tante occasioni ci siamo comunque guardati negli occhi.

Mancano pochi mesi alla fine della vostra carriera (mi permetto di colorare di lieve affettuosa ironia questa parola) scolastica. Come sempre è successo qualcuno di voi sparirà subito dalla circolazione e per sempre, qualcuno verrà ancora a trovarmi per una volta o due e poi… via, me lo auguro come è giusto e fisiologico, per la propria strada.

Di questo vi parlo oggi: la vostra strada. Mai come quest’anno, mentre perfino sul cellulare arrivano continui sms con notizie di vittime di attentati e bombardamenti,  mi sono interrogata pensando al vostro futuro, alla vostra vita. Quali saranno?

La nostra scuola organizza il cosiddetto “orientamento in uscita” ovvero cerca di aiutarvi a decidere cosa farete da grandi. E di solito in anni passati sono venute associazioni di professionisti, esponenti di facoltà universitarie, o altri enti che, a vario titolo, si occupano della materia.

Perché quest’anno il responsabile dell’ “orientamento in uscita” ha invitato anche le forze armate per proporvi un futuro da soldati professionisti?

Avrete capito ormai il perchè di questa mia lettera. La prof si preoccupa, si impiccia, non si fa gli affari suoi. Già la solita.

Credo che scuserete le mie solite preoccupazioni: siete già abituati a quelle delle vostre famiglie, delle mamme in particolare, ma forse mi potreste chiedere perché mi metto di mezzo anch’io.

Per il banale motivo che non posso rinnegare me stessa disinteressandomi di voi.

Perché la storia e la letteratura, che insegno e sono anche la mia vita,  hanno già parlato di voi: proprio di voi.

Perché  giovani sono le prime vittime della storia e sono i protagonisti preferiti della letteratura.

E mi capita di osservarvi, nella vostra quotidianità disordinata e incosciente, riflessiva e depressa, insofferente e trasgressiva, violenta e autolesionista, felice e tenera e di rileggere attraverso voi tante pagine epiche, tante poesie, tante canzoni.

Siete diversi perché ognuno è unico, ma se scegliamo la strada delle vittime potremmo essere tutti uguali.

E allora perché la nostra scuola non ha esitato, nella persona del professore di religione (Dio lo perdonerà?) ad indicarvi, e per prima, la strada del mestiere delle armi? Perché non dopo quelle della medicina, dell’ingegneria, dello spettacolo, dei trasporti su gomma e rotaia, del commercio, della tecnica, dello sport, dell’insegnamento, della scienza o dei media?

Perché allettarvi con i soldi, il guadagno, il denaro?

Che tristezza sto provando! E tutto questo forse perché qualcuno ha già deciso che non sareste capaci di studiare ancora o di specializzarvi per altre professioni?

Lo dica allora apertamente e dica i vostri nomi, dica perché, dica anche cosa ha fatto per voi per insegnarvi ad essere migliori e per meritare di tentare anche altre strade, quelle per costruire davvero il progresso e la pace.

 

La PACE.

Per quante volte si deve usare una parola fino a rendere vuoto il suo significato?

Non credo ci sia un numero abbastanza grande. E’ vero però che troppe volte la pace si nomina e si sbandiera, si auspica e si premia col Nobel, si prefigura in ipotetici scenari internazionali futuri sponsorizzandola in tutti i talk-show di tutte le reti televisive, si canta nei concerti e si invoca in manifestazioni e girotondi cittadini fino farla assomigliare a una delle qualsiasi pubblicità di merende, automobili o telefonini;  e allora rischiamo davvero che la parola pace non significhi più nulla.

 

Non è infatti già accaduto che si sia potuto usurarla tanto da banalizzarla o involgarirla, fino a imparentarla con il mestiere delle armi?

Infatti oggi la si usa frequentemente abbinandola ad altre parole come “truppe”, “soldati”, “missione militare” senza che nessuno avverta più il contrasto incoerente e scandaloso che questi accoppiamenti producono.

Potrei sentenziare,  da prof. di lettere,  una definizione e pensare a un significato figurato o metaforico: l’espressione soldati di pace, guerrieri di pace indica donne e uomini che dedicano la loro forza e il loro coraggio, la loro giovinezza e la loro saggezza a realizzare una società pacifica.

Ma proprio tra di voi, nel mondo degli studenti troverei, su questi miei svolazzanti  metafore letterarie, un meritato scetticismo.

 

Qualche giorno fa una mia bionda e pensosa alunna, di una classe vicino alla vostra,  diceva che quando considera le differenze tra chi ha e chi non ha nulla le sembra che non possano trovarsi definizioni abbastanza adeguate e che l’ingiustizia sia enorme.

E’ vero, ha ragione.

Tanto, troppo grandi e ignorate sono le differenze che convivono sullo stesso pianeta che è il nostro mondo.

E i suoi occhi e il suo cuore di giovanissima donna mi dicevano dunque di non riuscire nemmeno ad accettare l’idea che possano essere tollerate o ignorate.

Quali sono queste differenze? Le conoscete: anche loro oramai come tutte le parole logorate dall’uso sembra quasi non significhino più nulla; eppure… da una parte il benessere e dall’altra la fame, da una parte i sistemi sanitari e dall’altra nemmeno i vaccini o i disinfettanti più comuni, da una parte la scuola e dall’altra i bambini di strada, da una parte le famiglie e dall’altra gli orfani, da una parte le leggi sulle pari opportunità e dall’altra la schiavitù della prostituzione di donne, bambine e bambini.

Vedete? Non c’è stato bisogno di confrontare le diverse realtà elencando i soliti indicatori di ricchezza o povertà: i consumi dell’elettricità, i mass media, l’istruzione universitaria, la televisione, gli elettrodomestici  o le automobili e le vacanze.

Semplicemente possiamo osservare e confrontarci sui più elementari diritti umani.

Dovrei dire sui primari bisogni umani.

E come si può non tremare nell’animo di sdegno e, nella nostra coscienza di angoscia nel confrontare le nostre case con il fango, le tende, i ripari dietro i sassi delle mura cadute o sotto le siepi bruciate dalle esplosioni. Miseria, stracci, paura, occhi di bambini che muoiono, di donne dalla pelle sporca e rigata di lacrime e di uomini che frugano nell’immondizia e saccheggiano le case bombardate, ma imbracciano fucili.

E non gridiamo allo scandalo? E approviamo missioni di pace vestite di grigioverde coi i bottoni dorati, le tute mimetiche e gli anfibi, gli elmetti e i rombanti blindati sormontati dai radar? E come impedirlo? Sono figli nostri.

Partirete per una zona di guerra; ma contro chi marcerete? Contro un carretto tirato da un asino che nasconde un lanciamissili?

E a salvamento di chi andrete? Di un vostro coetaneo forse terrorista o di una ragazza  kamikaze?

O potete pensare che un piatto di minestra elargito ad uso di tv e fotografi possano colmare le differenze, farvi amare ed evitarvi di avere la gola tagliata da un rozzo coltello in un ingorgo delle strade di Baghdad o di Kabul?

 

E per tutto questo voi giovani, voi forti, voi avidi di vita credete a quelli che vi dicono, che potrete vestire una divisa ed esserne così nobili e fieri, così orgogliosi  e belli nell’imbracciare le armi da diventare invulnerabili? Quale Dio vi difenderà? E quanto pensate che potrà valere la vostra vita se spesa così? Vi abbraccio con il solito affetto

 

 

Roma, 30 Novembre 2003 

Un' IPOTESI TEORICA DI RIFORMA DELLA SCUOLA – di PAOLO MARIOTTI

Premessa – I new media aprono nuove prospettive al confronto di idee: possiamo infatti leggere e scambiare opinioni uscendo dallo schema obsoleto del confronto tra esperti che, per la verità, non produce ormai da tempo né bei fiori né frutti utili.
Ponendomi in questa nuova prospettiva leggo e raccolgo opinioni interessanti come questa, di Paolo Mariotti che, pur occupandosi professionalmente di altro, riflette e si esprime efficacemente anche sulla scuola.
Per reciprocità alle istituzioni scolastiche farebbe un gran bene, io credo, aprire gli steccati e svecchiare le proprie modalità di confronto e di comunicazione per ascoltare idee e pensieri non omologati, ma che vengono dal mondo della realtà e dell'esperienza del lavoro.(Mariaserena Peterlin)

Riforma della scuola: ipotesi teorica – RFC
pubblicata da Paolo Mariotti su faceBook il giorno martedì 11 gennaio 2011 alle ore 23.54
Vi sottopongo un'ipotesi teorica che mi è venuta in mente un po' per caso. Probabilmente ci saranno imperfezioni e sicuramente non avrò valutato un sacco di fattori, ma sono curioso di avere delle opinioni in proposito. 
I problemi che cercherei di risolvere sono i seguenti:
1) chi esce dalla scuola dell'obbligo non è molto preparato, in alcuni casi ha difficoltà nelle imprese più semplici, tipo scrivere decentemente o fare 2 conti
2) l'Italia si presenta come un paese di servizi sviluppando al massimo il terziario, ma ci sono molte difficoltà a coprire la maggior parte dei posti di lavoro di base per problemi di iperqualificazione del curriculum rispetto alle mansioni e agli stipendi bassini per tutti
3) eccettuati alcuni casi, la preparazione anche postuniversitaria, alla quale comunque io non sono arrivato, non è un segnale di eccellenza soprattutto se conseguita in ritardo rispetto ai tempi previsti.
Un'ipotesi di soluzione a questi problemi potrebbe essere la seguente:- Riduzione della durata della scuola dell'obbligo al biennio del liceo, un biennio generalista in cui si affrontino, e meglio, i temi contemporanei dividendoli in due anni ed evitando le corse come è avvenuto per me al liceo;
– introduzione di corsi iperspecialistici della durata, per esempio di un anno, successivi al completamento della scuola dell'obbligo, propedeutici all'avvio vero ad un apprendistato qualificato, in cui per esempio un falegname non venga distratto oltremodo da materie non necessarie e di cui si spera abbia già quantomeno una buona infarinatura tipo storia o filosofia (ricordando che durante gli ultimi 2 anni di scuola dell'obbligo sono state aggiornate verso l'attualità);
– reintroduzione del contratto di apprendistato per l'artigianato e per tutti i servizi "di base" con un limite d'età molto basso, diciamo dai 15 ai 18 anni (fine scuola dell'obbligo – maturità);
Le conseguenze, a mio giudizio sarebbero le seguenti:
– con la possibilità di un'introduzione anticipata nel mondo del lavoro, gli stipendi "di apprendistato" non sarebbero visti dal lavoratore come ridicoli, ma sarebbero un buon modo per avere un minimo di indipendenza economica dalla famiglia e aiuterebbero all'emancipazione;
– gli ultimi anni del liceo sarebbero meno affollati, spingendo avanti i più motivati e togliendo ai professori l'idea che lo studente sia lì un po' per forza, e quindi anticipando il bagno di sangue della selezione universitaria, permettendo a dei giovani ancora giovanissimi di scegliere veramente di lasciare gli studi con delle alternative valide;
– con un numero minore di studenti frequentanti si conseguirebbe anche la possibilità di un miglioramento delle strutture scolastiche a costo zero; infatti per ogni studente che lascia gli studi per andare a fare "un mestiere", gli altri studenti potrebbero avere degli strumenti migliori a disposizione:
– per i più xenofobi, se le posizioni lavorative di base fossero ricoperte dai giovani, sarebbe meno appetibile l'immigrazione in Italia, sempre se ancora lo sia, viste le prospettive fosche;
– infine si amplierebbe il ventaglio della classe dirigente formata dai diplomati e dai laureati che così avrebbero dei curricula meno appiattiti verso l'iperqualificazione.
Io ho detto la mia, e attendo risposte.

Riscoprire l’Arte e il Pensiero come messaggio ed impegno

Pablo Picasso : Guernica


Sulle definizioni dell’Arte si sono affaticati critici e filosofi, autori di opere e fruitori delle medesime. Non è mai stato possibile pervenire ad una definizione conclusiva anche perché, probabilmente, questo segnerebbe anche la fine della libertà e quindi della creatività connaturata al fenomeno artistico stesso.

Non si vuole qui negare dunque la libertà di intendere il fenomeno artistico come produzione autonoma del suo creatore.

Si vorrebbe tuttavia proporre una diversa riflessione. Dopo il periodo del noto ventennio non mancarono critiche per quegli intellettuali ed artisti che non si erano posti un problema di contenuto nelle loro opere.
Si parlò dunque, e a lungo, di impegno per l’intellettuale e per l’Arte.
Quel messaggio aveva fondati  motivi. Mentre il pianeta era stato trascinato in una guerra mondiale, mentre si era celebrato il più orribile degli olocausti, mentre le libertà erano state fatte cadere ad una ad una immolate sull’altare delle dittature, del razzismo elevato a filosofia, delle teorie perverse che tutti conosciamo, mentre alcuni (pochi) artisti ed intellettuali venivano imprigionati fino a morire in galera altri continuavano a seguire le loro danzanti suggestioni artistiche o, addirittura, mettevano la loro arte e il loro talento al servizio della bestia trionfante.
Conclusa la guerra, e sconfitta la bestia, si fece sentire la voce di chi condannava l’ignavia e il servilismo e richiamava ad un impegno sociale, politico e civile.
Fu un grande periodo: ricordiamo, per l’Italia, almeno i frutti del Neorealismo che fu motore di idee e di produzioni di grandissimo spessore  nel cinema ma non solo.

Oggi viviamo tempi diversi. Ma non viviamo tempi belli.
Non ci sentiamo sull’orlo di una guerra, ma non siamo in pace.
Non  tutti vivono nel bisogno, ma il tenore di vita scende, accade che un bambino muoia di freddo il giorno della Befana, e ci sono vivaci e sanguinosi bagliori di ribellione per mancanza di lavoro.
Non avvertiamo la mancanza di libertà, ma si vive come incollati alle quinte di una scena in cui la regia ha tutto predisposto e, quel che è peggio, si crede di pensare, ma non si ragiona.
Un esempio: cittadini che fanno la spesa al mercato di Torino, oggi intervistati in tv sulla vicenda Fiom-Marchionne  si esprimono  dicendo: “Se c’è la crisi tutti dobbiamo accettare i sacrifici”. Ossia ripetono passivamente quanto detto e ridetto da chi ha interesse a che quei sacrifici siano accettati. Dunque i cittadini, questa è la mia ipotesi, credono di avere un’opinione ma non riflettono.
E non riflettono perché non hanno strumenti.
In compenso hanno paura. E la loro paura è legittima e giustificata.
Infatti non è colpa del semplice cittadino se le sue informazioni lo portano a pensare così.

La responsabilità è, invece, di tutti quelli che, potendo attingere a informazioni non bassamente mediate o possedendo strumenti di analisi più raffinate o anche di una cultura specialistica non la mettono a disposizione di chi sa meno di loro, ma si incartano e portano a casa (mettendoli accuratamente sotto chiave) i privilegi che già hanno ottenuto o che sperano di ottenere.
E qui il cerchio si chiude.

No, non dobbiamo chiedere a questi signori (intellettuali, artisti, poeti, scrittori, pensatori, filosofi, economisti ecc ecc)  la parola che squadri da ogni lato l’animo loro informe. 
Non chiediamo nemmeno di cantare col piede di Marchionne sopra il cuore.
Però chiediamo che almeno non facciano danno.

Il pensiero e l’arte, l’intellettuale e lo scrittore o l’artista potrebbero e dovrebbero svestire il vestito narcisista e dare un senso e un messaggio alle loro opere.
Invece parlano solo di se stessi: sono in pieno regime autoreferenziale, e sono contenti di esserlo.
I giornalisti parlano dei politici e la politica parla dei e sui media.
Gli intellettuali, o presunti tali, parlano di gossip e sono attori del gossip.
I sindacalisti parlano di crisi e la crisi si occupa di disinnescare le armi della rivendicazione dei lavoratori.
Il valore del lavoro sta scivolando verso le quotazioni indiane e cinesi (un dollaro l’ora) ma ci lamentiamo degli immigrati e non di questo neocolonialismo dislocante che abbatte i costi grazie a una forma di sfruttamento della schiavitù consenziente.
Siamo tutti sotto scacco.

E l’intellettuale che fa?
Pensa solo a guadagnare, se può, scrivendo-parlando di legalità, di vizi privati, di questione di costume o peggio ancora, solo di se stesso.
E l’artista, lo scrittore, il poeta?
Si dedica ai vampiri? Sogna sulle potenzialità realtà virtuale? Distilla la composizione elitaria e le elucubrazioni fantascientifiche?

Chiediamo, allora, che tutti costoro almeno non alzino inni contro la laboriosità, contro la famiglia, contro i sentimenti che legano tra loro le persone e i soggetti sociali.
Che non calpestino almeno i principi base della nostra civiltà: uguaglianza, fraternità, libertà. Valori borghesi? Certo.
Ma sui quali si potrebbe ancora costruire un avvenire di uomini e non di cyborg.

Perché se è vero che l’arte non è furore divino, non è nemmeno narcisismo estetizzante.