Archivi del mese: novembre 2017

Scrittori, ma senza troppi ardori, please

Una riflessione che confermo.

Notecellulari

ImageSpesso ho, dal mio modesto e personale angolo-scrittoio, espresso l’idea che sia importante scrivere, scrivere bene e comunicare.
Osservo però (chissà se ho ragione?) che la modalità scrittura via web dilaga, che c’è un contagio di scrittura e che di scrittori ce n’è ogni giorno di più.
Tutto questo, e sempre dal mio modesto e personale angolo-scrittoio che vorrei sommesso (e non sempre mi riesce), può essere ottimo antidoto e efficace terapia a tanto silenzio mentale.
Unica remora: scrivere? Benissimo, è ottima pratica, meglio però non associare l’idea scrittura all’idea diventerò un famoso scrittore, magari anche bravo.
Sono cose diverse. Meglio non associare, e mischiare men che meno.
Un poeta che conosciamo tutti ha intitolato il suo primo libro di poesie Myricae ponendo come epigrafe, un po’ come sottotitolo, un verso di Virgilio: arbusta iuvant humilesque myricae; in una lettera egli spiegò “Myricae è la parola che usa Virgilio…

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Della poesia, ovvero “cosa non detta in prosa mai, né in rima”.

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Nel titolo di questo post cito, come si vede, uno dei versi più famosi dell’Ariosto che s’accinge a narrare la follia d’Orlando. Ariosto quasi si giustifica: narrerà sì dell’Orlando paladino, peraltro celebrato fin dal medioevo nella Chanson de geste ad esempio, ma ne dirà qualcosa di inedito, non detto precedentemente né in versi né in prosa. Di tale prudenza è, per dir così, il proemio di uno dei nostri maggiori, di una delle nostre corone letterarie, che sente la necessità non soltanto di creare un’attesa nell’eventuale lettore (e quanti milioni ne avrà avuti invece!) ma anche di chiarire che sa di inserirsi sulla scia di una tradizione: scrive perché dirà qualcosa di nuovo, di inedito. Altrimenti, potremmo interpretare, non avrebbe scritto affatto e tanto meno un così vasto poema.
Perché allora immagino che potrebbe essere utile, o forse necessario, scomodare un così emblematico genio e aggiungerne una nota citazione? Solo per eventuali curiosi non addetti alla letteratura, prendo spunto dal Foscolo il quale in Notizia intorno a Didimo Chierico scrive «Aveva non so quali controversie con l’Ariosto, ma le ventilava da sé, e un giorno, mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, esclamò: Così vien poetando l’Ariosto».
L’Ariosto e la sua ispirazione rappresentati come onde inarrestabili dell’Oceano. Un autore tale non può, infatti, fare a meno di scrivere, non può trattenere dentro di sé la poesia e, d’altro canto, i suoi versi gli corrispondono: estesi, larghi, naturali, armonici ed inediti, materia umana in tutte le sue gamme e immagine fantastica senza limiti.
Ma allora, e mi ripeto, perché la mia presunzione di scomodarlo in un modesto post di un piccolo blog come questo?
Solo per un paio di altrettante modeste, e prosaiche, ragioni che tento di descrivere in modo schematico:
A) Oggi non si scrive più in rima: tuttavia la poesia ha bisogno, ad esempio, di ritmo e di suoni, di musica e di assonanze, di rallentamenti e riprese; non basta aver cose da dire, non basta aver voglia di comunicare, la poesia ha bisogno di arte, artigianato e, a volte, di un minimo di mestiere.
B) Non basta, inoltre, sentirsi “ispirati”. Tutti, nelle diverse vicende della vita,  ci sentiamo emozionati, commossi, rallegrati o rattristati da qualcosa, ma non per questo possiamo presumerci poeti se ne scriviamo con frasi rotte andando a capo.
C) É vero, non è necessario scrivere in rima: ma l’esercizio della rima, ed anche della metrica tradizionale, credo dovrebbe essere umilmente praticato prima di buttarsi a scrivere in versi liberi (che liberi sono solo in apparenza!)
Anzi direi proprio che esercitarsi a rimare e scrivere secondo schemi metrici (sonetti, ottave e così via) dovrebbe essere come il foglio rosa prescritto a chi impara a guidare.

Non siamo, infatti, tutti Oceano, e troppo raramente nasce un Ariosto che a lungo a sua volta ha studiato, riflettuto, corretto ed emendato.
Quanti lo fanno? Quanti invece surfano tra sinonimi e dizionari, tra rimari e echi spericolati di un animo commosso o dal corazòn espinado?
La mia è una posizione, probabilmente, poco amabile; ma lungi da me lo scoraggiare la scrittura libera; il mio impegno modesto consiste nell’invito a leggere i grandi, a riflettere e studiare, a usare con prudenza da contagocce il definirsi poeta o poetessa.

Il tanto che abbiamo avuto

primo giorno scuola

in II Elementare

Quando sento parlare di “generazioni che hanno avuto tanto mentre oggi i giovani non hanno lo stesso benessere” mi sento quasi male, e vorrei ristabilire alcune verità, ma non di quelle basate su demagogie o reazioni sentimentali.
Solo storie vissute e fatti veri, cronache della mia infanzia.
Voglio parlare di casi veri reali, di persone vere come i miei coetanei e coetanee (ma potrei parlare, per qualche episodio, anche di me stessa) e poter dire cosa  fosse, se c’è, di quel “tanto” che avrebbero avuto, che avremmo avuto.
Oggi voglio ricordarmi solo di una compagnetta di scuola: Laura che era la più brava della classe, eccelleva su tutti.
Laura aveva i capelli neri che le scendevano sulle spalle in lunghi e neri boccoli; era una bambolina. Ma i suoi vestiti, sotto il grembiule bianco obbligatorio in quegli anni, sapevano sempre un po’ di selvatico.
Laura aveva la faccina sempre abbronzata, era figlia di contadini e veniva a scuola da sola, a piedi, dalla campagna.
Perché me ne sono ricordata?
Forse perché si dice che vivessimo nel benessere, ma io so che la nostra maestra aveva organizzato, spontaneamente, noi bambine, in modo che la piccola Laura (ovviamente metto questo nome di fantasia) fosse a turno invitata a pranzo a casa di qualcuna di noi.
Laura, che ci aiutava sempre nei compiti perché era la più brava e intelligente, non aveva abbastanza da mangiare; ma questo l’ho capito solo molto tempo dopo.
Ecco chi aveva tanto ieri, ecco cosa aveva.
E meno male che portavamo il grembiule che, almeno all’apparenza, ci rendeva tutte uguali.

Pavese, una passione

Luna di notte

“La luna – disse Nuto – bisogna crederci per forza.”

Provo a dirlo brevemente. Rileggo La luna e i falò. Un libro che cambia man mano che la vita ci cambia. La prosa: meraviglia di un ritmo spoglio, arcaico, intarsiato di prestiti e costrutti dalla parlata regionale. Catartico il racconto che non risolve, non conclude, non spiega eppure, eppure sì è un magma simbolico senza tempo. Universale, eppure chiede silenzio.
Tali sono i grandi miti, e Pavese qui è mito.
E poi, in me modesta lettrice, dolore profondo contro chi, invece, vilmente parla di un Pavese “suicida per amore”.
Cito a memoria, che ora sono talmente travolta dalla voglia di dirlo senza far lezioni a nessuno: “non ci si uccide per amore di una donna, ci si uccide perché ogni amore, qualunque amore, rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.”
E mi vien voglia di dire : somari.
Ma perché, scusate, quelli come me studiano per anni e leggono e cercano, sentendosi insufficiente sempre, di conoscere gli autori nelle loro pieghe più affascinanti e difficili a dirsi e poi rinunciamo: lo sai, hai letto tanto, ma non ti sembra ancora abbastanza.
E invece esce dalla sua palude un qualche rinoceronte trionfante, circondato da uccellacci gracchianti, che calpesta e si pavoneggia come un ballerino ubriaco ma sì, ma lui sa, lui dice, lui dichiara di sapere tutto perfino che Pavese si è ucciso per amore, un depresso che magari alzava il gomito.
Somari.
Ignoranti.
Vergogna.
Rispetto no, vero?
Rispetto almeno per un suicidio lungo come una vita, no?
Istituire il reato di crassa ignoranza non servirà. Ma se c’è un dio dei Poeti, e certamente c’è , troverà il modo di punirvi.
E quei falò che generano vita bruceranno sempre nelle notti di tutti di luna.
La luna – disse Nuto – bisogna crederci per forza.