«lo non sono stato innamorato», rispose sempre serio il principe. «Sono stato felice, ma … in altro modo.»
«Come? in che modo?»
«Ebbene, ve lo dirò», consentì il principe gravemente e come assorto.
cap VI.
«Ecco», incominciò, «voi tutte mi guardate ora con tanta curiosità, che per poco che non la soddisfi, rischio di cadervi in disgrazia. No, no, scherzo», soggiunse subito sorridendo. «Là … laggiù non c’erano che ragazzi, ed io con loro· spendevo quasi tutto il mio tempo. Erano i ragazzi del villaggio, tutto l’allegro sciame che frequentava la scuola. Non già che io insegnassi loro qualche cosa; oh no! per questo c’era il maestro, Jules Thibault. In un certo senso, forse sì, imparavano anche da me, per ché ero sempre in loro compagnia, e così per quattro anni di fila. Né io domandavo altro. Dicevo loro tutto, senza nulla nascondere. I genitori mi guardavano di mal occhio, perché si arrivò a questo, che i ragazzi non potevano più fare a meno di me, mi si stringevano ai panni, tanto che, dàlli e dàlli, anche il maestro di scuola divenne il mio più acerbo nemico. Molti nemici avevo, e sempre per via dei ragazzi. Perfino Schoeider mi fece la predica. Ma che paura avevano? Ad un ragazzo tutto si può dire: si può e si deve. lo ho sempre stupito della poca comprensione che i grandi hanno dei piccini, perfino i padri e le mamme. Ai fanciulli nulla si deve nascondere, col pretesto della tenera età, che non va turbata con la precoce conoscenza di certe cose. Che errore, che triste illusione! E come se n’avvedono subito i ragazzi che i genitori li considerano troppo piccoli, e credono che nulla capiscano, mentre invece capiscono tutto. Ignorano i grandi che un fanciullo, anche in un caso intricato e difficile, può dare un consiglio prezioso. O Dio! quando vi guarda negli occhi quel caro uccellino, con tanta fiducia, con tanta limpidezza di gioia, dovreste aver vergogna d’ingannarlo. lo li chiamo uccellini, perché gli uccellini sono quel che c’è di meglio al mondo. Del resto, tutti nel villaggio ce l’avevano con me per un certo caso … e quanto a Thibault, era gelosia la sua. Sulle prime, non faceva che crollar la testa, non riuscendo a spiegarsi come mai i ragazzi con me capivano tutto, e con lui quasi niente; poi un giorno si mise a ridere, quando gli dissi che tutti e due, lui ed io, non che insegnar loro qualche cosa, eravamo loro scolari. E come poteva egli, vivendo in mezzo ai ragazzi, esser geloso di me e perfino calunniarmi! La compagnia dei ragazzi purifica.