Dubbi: ieri e oggi

Vita nella baracche a Roma

Ancora negli anni sessanta vi erano, specialmente al sud, ma anche nelle periferie e baraccopoli di Roma, famiglie italiane che vivevano o forse sarebbe meglio dire sopravvivevano, anche con numerosi figli. Tre, quattro anche sei. Nidiate povere cresciute a pane, minestra e vestiti riciclati.
Persone economicamente nella miseria, nella povertà.
Le case? A volte baracche di latta e cartone (e ne ho viste).
Altre volte vecchi edifici dismessi e non sicuri.
Ho conosciuto famiglie che si sono costruite, un pezzo alla volta, con materiali “rimediati” e su terreni abusivi, delle casette fuori da ogni norma e piano regolatore. Eppure vivevano e s’arrangiavano. Un aiuto erano la “cassa mutua malattie”, il medico della mutua (non date retta al film di Sordi, quella era tutta un’altra storia e non diffusa), le colonie estive gratuite per i bambini, le parrocchie e l’aiuto reciproco.
Tanta povertà.
Era come se la “ricchezza” fossero i figli e anche se mancava non solo l’utile, ma spesso il necessario, di metteva su famiglia.
Oggi invece le famiglie si stanno estinguendo.
Le unioni? Civili , religiose o “incivili” sono spesso provvisorie.
Le nascite sono sempre più in declino.
Si dice sempre più spesso che abbiamo bisogno di immigrati.
E sarà certo vero.
Ma sono persone che scappano dalla miseria, dalla guerra, dalla mancanza di lavoro.
Perché non possono averlo nella loro patria?
Perché noi “ricchi” siamo sterili?
Perché da noi i lavori offerti ai giovani sono malpagati e umilianti?
E perché, abbiamo bisogno di chi è più povero tra i poveri?

Perché è tutto così sbilanciato e non ci importa di rimettere a in equilibrio la vita del pianeta, delle nazioni, dei popoli? Perché non ci ricordiamo come eravamo?

Citofonare liberismo, citofonate morte della democrazia e citofonare anche alla salma del pd.

Diritto alla speranza, diritto alla vita

A me sembra che nulla giustifichi, invece, la disperazione. Nessun essere umano dovrebbe patire e soffrire per la disperazione.
C’è gente che usa le parole senza nemmeno comprenderne il significato.
Essere indifferenti al dolore altrui, fino al punto di fare perdere la speranza è come uccidere.
E se sopravvive un barlume soltanto di speranza allora negarne il diritto è doppiamente colpevole.

Nel nome della memoria

Chi, come me, ha avuto una famiglia (e già questa è un’eccezione) che ha trasmesso i valori, di cui tanto si parla e poco si pratica, il messaggio del tragico dolore per la vergogna dell’olocausto è stato una costante della vita e un messaggio costante nella memoria, nel suo nome.

Le ricorrenze sono fondamentali per trasmettere sempre quel messaggio e rinnovare quei valori.

La viva speranza è che non se ne faccia un ossessionante baraccone mediatico e politico che serva ad acchiappare consensi.

Se accadesse questo oltre a infangare un dolore che deve essere di tutti, e nostro il lutto, si ritornerebbe a dar spazio e voce a quelle infami logiche di propaganda, nonostante le eventuali buone intenzioni.
Infatti se tutto nacque da una disumana, corrotta e abietta ideologia fu proprio l’infame propaganda a rendere possibile che quel dolore, che poteva essere condannato e rifiutato da tutti, sia divenuto reale tortura, devastazione di vite e morte atroce di milioni di esseri umani scientificamente perpetrata.
Ed è proprio quando l’atrocità dei delitti può diventare, e senza scandalo, addirittura “legge” di uno stato che l’umanità cede, e lo ha fatto, lo scettro ai demoni più crudeli e sghignazzanti.

Mi verrebbe da dire il solito “giù le mani da…” ma sarebbe comunque un seme di moralismo supponente e negativo che si deve fuggire.

Nemmeno i geni sono profeti

Anche i geni, a volte, non mirano bene

La mia baldanzosa generazione ha ammirato Umberto #Eco e spiegare le ragioni sarebbe lungo e comunque insufficiente esercizio.

Forse sono una imbecille anch’io, ma mi diverte pensare che quando il genio stigmatizzò il web affermando che avesse dato “diritto di parola agli imbecilli” non aveva immaginato e probabilmente non poteva immaginare la inarrestabile e sterminata diffusione, almeno per ora, del fenomeno social e delle sue infinite parole.

Eco in quegli anni conosceva certo Internet e i blog, ma non fB, twitt e così via. Non poteva conoscerli e, forse, non poteva prevederli.

Ma tant’è; e dell’eco del suo monito terrei da conto, specialmente quando noi eco_imbecilli (mi scusino) ci facciamo prendere dalla fregola del #citazionismo e facciamo copia-incolla di motti, frasi, detti e frasette estrapolate da contesti.

Del citazionismo è, in un certo senso, vittima lo stesso Eco geniale, genio in tutto ma non della lampada del futuro.

Siamo umani, esorto, restiamo umani: esortare non è citare infatti, ed è pratica modesta che vien dal cuore, non dallo screenshot.