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Nemmeno i geni sono profeti

Anche i geni, a volte, non mirano bene

La mia baldanzosa generazione ha ammirato Umberto #Eco e spiegare le ragioni sarebbe lungo e comunque insufficiente esercizio.

Forse sono una imbecille anch’io, ma mi diverte pensare che quando il genio stigmatizzò il web affermando che avesse dato “diritto di parola agli imbecilli” non aveva immaginato e probabilmente non poteva immaginare la inarrestabile e sterminata diffusione, almeno per ora, del fenomeno social e delle sue infinite parole.

Eco in quegli anni conosceva certo Internet e i blog, ma non fB, twitt e così via. Non poteva conoscerli e, forse, non poteva prevederli.

Ma tant’è; e dell’eco del suo monito terrei da conto, specialmente quando noi eco_imbecilli (mi scusino) ci facciamo prendere dalla fregola del #citazionismo e facciamo copia-incolla di motti, frasi, detti e frasette estrapolate da contesti.

Del citazionismo è, in un certo senso, vittima lo stesso Eco geniale, genio in tutto ma non della lampada del futuro.

Siamo umani, esorto, restiamo umani: esortare non è citare infatti, ed è pratica modesta che vien dal cuore, non dallo screenshot.

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Il merito e l’orgoglio

Il merito e l’orgoglio

Niente panico, non descriverò il merito.

Direi solo che certe nostre qualità e condizioni sono un dono, non un merito.

Di ciò che siamo, di dove viviamo, di quali sono i nostri titoli, amici o beni e così via dovremmo essere grati e non orgogliosi.

Di ricordi e di immagini

La mia veranda con le brutte sedie,
ma ingentilita da panchine scabre,
fioriva di lillà gli archi di ferro
e viola diventava in primavera.

Il vento scapigliava quei bei fiori
e li piegava in danze ottocentesche:
inchini e sventagliate intiepidite
da un vento che scherzava coi colori.

Nulla ritorna e nulla vuol finire
nelle mie mani poco stringo adesso
ma punge ancora ruvido quel gesso
e quel cemento. E il vento e i fiori
miti raccontano il tempo ai miei ricordo.

MSP

(come una cartolina demodé)

Rovaio, ossia tramontana

Scende dai monti

Accade che parole suscitino pensieri. A volte una sola parola, raccolta casualmente da un discorso banale, innesca una reazione della memoria. Non solo le forme, i profumi o le situazioni, ma anche solo una parola può iniziare una reazione di catena di pensieri.
Ci sono parole particolarmente evocative: quelle come amore, pace, guerra, gioia o fame e così via sono tanto pesanti e importanti quanto, alla fine, purtroppo e troppo usurate.
Poi ci sono parole che stavano come scolorendo nella memoria e che, con un guizzo imprevedibile, accade di ascoltare.
M’è accaduto con la parola rovaio, colta in una domanda di un quiz televisivo.
Una caterva di memorie, prima confuse e incerte, poi via via più precise e definite si sono fatte avanti dentro di me.
Rovaio? Giovanni Pascoli, certo, in più di una poesia.
E a seguire il senso. Rovaio ovvero vento del nord, freddo, impetuoso: comunemente detto tramontana.
E quindi sì, la tramontana e mi sento di nuovo camminare al freddo che scende dal nord e dai monti, già all’inizio dell’inverno, con papà. Un cappellino di lana in testa, pantaloni e scarpette che non riparavano dal freddo. E vorrei sentirlo ancora quel vento freddo che frugava sotto il cappotto e arrossava le guance e il naso. Un freddo pungente, schietto, pulito, asciutto. Le strade sempre quelle di una città circondata da mura medievali. Mi piaceva camminare con papà mentre mamma e sorella, le pavide! rimanevano in casa.
Dov’è oggi quella tramontana? Sono sicura che nasca da qualche monte nevoso ma che si sgomenti incontrando le nostre città e giri per luoghi più degni. Certo gira per quelle colline dove le case non sono blindate da finestre e porte efficienti, certo fischia ancora nei camini antichi e sibila tra onesti infissi di legno.
Guance rosse come mele, ginocchia bianche di freddo, una mano in tasca e l’altra stretta in quella grande di papà.
Amo le parole, amo la parola rovaio, brividi di emozione non compensano quelli del freddo schietto e pulito della tramontana che fischiava nella mia infanzia. Ma la magia delle parole restituisce presenze e conforto: qualcosa che non si cancella.