1989
Il pomeriggio era scorso via, come una lieve e doverosa formalità; accadeva sempre così per i pomeriggi di consigli di classe, infilzati come dadini di ciccia, uno di seguito all’altro secondo un orario che teneva conto, ma senza inflessibilità, della composizione dei consigli stessi e degli impegni degli insegnanti che non avrebbero dovuto sovrapporsi ed essere tutti sempre presenti. Ma non è sempre stata così la mia scuola.

Ma negli anni in cui all’Arangio Ruiz era in vigore la maxisperimentazione non ci si incontrava per assolvere a una formalità.
Ad ogni riunione si invitavano anche tutti gli studenti e i genitori per sottolineare e per incentivare il dialogo didattico. La maxisperimentazione attuata nella mia scuola negli anni 80 era quasi un’avventura didattica appassionante. Fondata su importanti basi metodologiche (di cui oggi non interessa più niente a nessuno) e sulla visione di una cultura democratica e in progress, la maxi era una vera sfida.
Anche se non potevano mancare, nemmeno nella maxi, figure meno impegnate di docenti, anche se qualcuno di loro considerò il fatto che al rigore formale si desse poca importanza e si puntasse piuttosto sull’impegno vero e appassionato al dialogo con gli studenti come un alibi per svolgere mansioni abbastanza alleggerite o semplificate, si deve riconoscere alla gran parte di quel fervoroso drappello di docenti una serietà e una cultura di prim’ordine.
Il fatto che il voto, anche nelle verifiche orali o scritte, fosse sostituito da un lungo ed articolato giudizio scritto, di cui occorreva giustificare ogni singola parola, costringeva a una metodica e scrupolosa analisi; il fatto che le “lezioni frontali” fossero solo uno degli strumenti approvati dall’equipe sperimentale (l’organo non burocratico ma ascoltato dal Preside e dal Ministero ) induceva a progettare altri strumenti, il fatto che la maxi comportasse l’abolizione degli esami di settembre e che lo scrutinio finale e decisivo si svolgesse a giugno, comportava che si procedesse con cautela nelle valutazioni e che si studiassero anche strategie di recupero.
La maxisperimentazione non proponeva un corso semplificato, né per i discenti né per o docenti, anzi! Un anno furono respinti dieci alunni nel passaggio dalla terza alla quarta: il preside volle una giustificazione caso per caso che andava ben al di là dell’elenco delle insufficienze, perché una bocciatura era considerata non tanto un giudizio quanto una misura dell’efficacia dell’azione didattica. “Ricordatevi” diceva il nostro Preside “che chi boccia uno studente boccia anche se stesso”. Non c’era buonismo né demagogia in questa affermazione: c’era un richiamo al lavoro e alla coscienza, all’impegno e alla professionalità; ma anche allo studio severo, all’aggiornamento e alla ricerca. Qualcuno approfittava o tentava di sfuggire al rigore: ma diventava presto, agli occhi dei colleghi, una vera macchietta (e ce n’erano). Normalmente l’insegnante della maxi voleva sentirsi preparato e all’altezza; e quindi anche io ero alla continua ricerca di questa misura necessaria per essere adeguata all’incarico.
Infatti per insegnare nella maxi bisognava essere già incaricati o di ruolo nelle scuole di normale ordinamento e di livello analogo, per poi essere “chiamati” dal Preside.
“Io me li sono scelti ad uno ad uno” diceva, serio, il nostro Preside Antonio Marando. E spesso ci chiamava a colloqui, verificava, sondava.
Non ha mai ispezionato il nostro registro o sindacato le valutazioni. Ma era con noi. Era una presenza colta e alta. Era uno stimolo, autorevole uomo dalla cultura forse un filo narcisista ma estremamente varia e critica. E io gli ho voluto molto bene. Accanto a lui si aveva la misura e il senso della professione.
Poi non è stati più così. Abbiamo avuto accanto seriosi professionisti, diligenti burocrati, simpatici o fastidiosi vigilanti. Ma mai più Antonio Marando.