Archivi del mese: Maggio 2020

Il consenso (cercasi versi)

Il consenso
Eppure stona, sollievo inesistente,
voce che aggira e narra a vuoto
insieme camuffato, dentro il vuoto.

Sussurra la minaccia convertita
in suoni e voci piccole o sottili
sbrindelli di notizie in rari fili.

Né logiche ragioni o vero dice,
non dice e poi ridice se conviene.
S’abbevera smanioso alle catene
il collo piega, in massa se ne viene.

vento sul mare

Vento sul mare Adriatico – Foto di M.Serena Peterlin

 

CAVIE DI Covid-19

io, testimoneAttraversiamo i sentimenti: dalla paura alla speranza.Insomma una storia come tante, e io la interpreto così.
C’era una volta un virus. Si trattava di un male sconosciuto che bisognava studiare da zero per poterlo affrontare e contrastare.
Come si studia una patologia che colpisce l’uomo se non studiando lui stesso ammalato, dai primi sintomi all’evoluzione, al contagio e così via?
E siccome la cura era sconosciuta come il male, allora ci si trastullò sperimentando slogan discutibili del tipo andrà tutto bene (Ma bene per chi?).
L’unica pratica seria e scientifica fu stata quella raccomandata e prescritta da qualche medico serio e soprattutto dai poco ascoltati epidemiologi. E furono considerati oracoli, ma la medicina e la scienza sono sperimentali, non profetiche per cui ogni affermazione fu via via sottoposta a verifica e sovente modificata.
Dunque cavie di covid : sì, perché la massa della gente ha continuato ad attraversare sentimenti, alternando non solo paura e speranza, ma anche sospetto ansioso ed isteria polemica, tristezza ed euforia, negazionismo e ottimismo, ma il tutto inconsapevolmente del reale problema.
Perfetto fu questo terreno per sociologi e psicologi, ma certo non fu altrettanto interessante per gli scienziati che dovevano individuare la terapia né utile per trovare il vaccino.
Finito il cosiddetto allarme rosso, come noto senza aver potuto trovare una terapia condivisa, Le cavie di covid hanno continuato, senza nemmeno sospettarlo, ad essere usate per osservare cosa succede all’uomo e come il virus si comporti quando, invece di fuggirlo isolandosi lo si considera un ospite con cui sia necessario convivere.
E le cavie hanno accettato la convivenza come una “liberazione” e hanno festeggiato: certo, perché no?
Nel nostro paese, l’Italia deindustrializzata, dislocata, scervellata, dove il lavoro ormai consiste prevalentemente in servizi alla persona e consumi di tipo commerciale si è difeso il lavoro riaprendo quel quasi unico tipo di lavoro: esercizi e negozi, bar e pub e ristoranti e così via.

A questo punto le cavie, volenterose e perfino felici e riconoscenti, euforiche e pimpanti hanno fatto progredire l’esperimento e, bravamente inalberato e poi scartato il look primaverile che ammuffiva, sono passate tout court a canotta e minishort e via alla ricerca del “ricominciare a vivere” ovunque e comunque, a qualsiasi ora.
Pazienza se si trattava di una vita un filino fasulla, quella volevano e se la godevano.
Nei campi (e nelle officine?) andarono pochi semi-invisibili di cui si può anche non parlare.

E pazienza se era una vita da cavie, basta non pensarci. Pensare poi! E a che serve?
Il cervello può attendere. Sensi e sentimenti irrazionali no e si convive col virus insieme loro.AH dimenticavo: salute!

 

Metti un virus, a febbraio

Febbraio 2020, al crepuscolo, in un barcone sul Tevere american_quarantine._johnsons_new_chart_of_national_emblems_1868

Cap.Consapevole : Abbiamo un problema sanitario!
La ciurma (in coro): Cos’è un problema? (Il Consapevole tenta una spiegazione dettagliata)
Cap.Consapevole: Gira un virus letale! Forse addirittura un virus spaziale o un fantavirus grossissimo! Sveglia! Dove avete messo il dossier “piano per emergenze sanitarie?”

La ciurma (in coro): Cos’è un piano?
Ministra 1 (tintinnando orecchini chandelier) : Svelti però che c’ho appuntamento con il parrucchiere, ho già la ricrescita e devo incontrare i braccianti mica mi posso presentare così.
Ministra 2 (frugando nel beauty): Eh sì svelti che mi sono persa l’imbuto e devo scrivere una circolare dettagliata, sennò fanno come gli pare.
Ministro X (preoccupato): Sì sbrighiamoci, io devo ancora parlare con Ursula che vuole assolutamente il nome del parrucchiere di mia moglie.
Cap.Consapevole: “Oh Signore! Ragazzi, sveglia! È una cosa seria! Me lo ha detto anche…
La ciurma: (coro di sghignazzamenti) Ora non attaccare con Padre Pio e papa Francesco, c’hai rotto, adesso pure il vairus!
Cap.Consapevole: Io sono consapevole dei vostri gravi impegni, li conosco, ma questa volta pare non sia un virus che si cura con una bottiglia di rum; dunque dove avete messo il piano di emergenza sanitaria?
La ciurma in coro: Cos’è un piano? (seguono altri sghignazzi e cachinni)

Cap.Consapevole: OK, chiudi tutto. Forse non se ne accorge nessuno.

Maxisperimentazione al Ruiz, frammenti di memoria

1989

Il pomeriggio era scorso via, come una lieve e doverosa formalità; accadeva sempre così per i pomeriggi di consigli di classe, infilzati come dadini di  ciccia, uno di seguito all’altro secondo un orario che teneva conto, ma senza inflessibilità, della composizione dei consigli stessi e degli impegni degli insegnanti  che non avrebbero dovuto  sovrapporsi ed essere tutti sempre presenti. Ma non è sempre stata così la mia scuola.

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Ma negli anni in cui all’Arangio Ruiz era in vigore la maxisperimentazione non ci si incontrava per assolvere a una formalità.
Ad ogni riunione si invitavano anche tutti gli studenti e i genitori  per sottolineare e per incentivare il dialogo didattico.
La maxisperimentazione attuata nella mia scuola negli anni 80 era quasi un’avventura didattica appassionante. Fondata su importanti basi metodologiche (di cui oggi non interessa più niente a nessuno) e sulla visione di una cultura democratica e in progress, la maxi era una vera sfida.
Anche se non potevano mancare, nemmeno nella maxi,  figure meno impegnate di docenti, anche se qualcuno di loro considerò il fatto che al rigore formale si desse poca importanza e si puntasse piuttosto sull’impegno vero e appassionato al dialogo con gli studenti come un  alibi per svolgere mansioni abbastanza alleggerite o semplificate, si deve riconoscere alla gran parte di quel fervoroso drappello di docenti una serietà e una cultura di prim’ordine.

Il fatto che il voto, anche nelle verifiche orali o scritte, fosse sostituito da un lungo ed articolato giudizio scritto, di cui occorreva giustificare ogni singola parola, costringeva a una metodica e scrupolosa analisi; il fatto che le “lezioni frontali” fossero solo uno degli strumenti approvati dall’equipe sperimentale (l’organo non burocratico ma ascoltato dal Preside e dal Ministero ) induceva a progettare altri strumenti, il fatto che la maxi comportasse l’abolizione degli esami di settembre e che lo scrutinio finale e decisivo si svolgesse a giugno, comportava che si procedesse con cautela nelle valutazioni e che si studiassero anche strategie di recupero.

La maxisperimentazione non proponeva un corso semplificato,  né per i discenti né per o docenti, anzi! Un anno furono respinti dieci alunni nel passaggio dalla terza alla quarta: il preside volle una giustificazione caso per caso che andava ben al di là dell’elenco delle insufficienze, perché una bocciatura era considerata non tanto un giudizio quanto una misura dell’efficacia dell’azione didattica. “Ricordatevi” diceva il nostro Preside “che chi boccia uno studente boccia anche se stesso”. Non c’era buonismo né demagogia in questa affermazione: c’era un richiamo al lavoro e alla coscienza, all’impegno e alla professionalità; ma anche allo studio severo, all’aggiornamento e alla ricerca.  Qualcuno  approfittava o tentava di sfuggire al rigore: ma diventava presto, agli occhi dei colleghi, una vera macchietta (e ce n’erano). Normalmente l’insegnante della maxi voleva sentirsi preparato e all’altezza; e quindi anche io ero alla continua ricerca di questa misura necessaria per essere adeguata all’incarico.

Infatti per insegnare nella maxi bisognava essere già incaricati o di ruolo nelle scuole di  normale ordinamento e di livello analogo,  per poi essere “chiamati” dal Preside.
Io me li sono scelti ad uno ad uno” diceva, serio, il nostro Preside Antonio Marando. E spesso ci chiamava a colloqui, verificava, sondava.
Non ha mai ispezionato il nostro registro o sindacato le valutazioni. Ma era con noi. Era una presenza colta e alta. Era uno stimolo, autorevole uomo dalla cultura forse un filo narcisista ma estremamente varia e critica. E io gli ho voluto molto bene. Accanto a lui si aveva la misura e il senso della professione.

Poi non è stati più così. Abbiamo avuto accanto seriosi professionisti, diligenti burocrati, simpatici o fastidiosi vigilanti. Ma mai più Antonio Marando.