Non avevo mai avuto il dubbio che la grazia di una ironia stralunata e folle, geniale e imprevedibile, anticonformista e affettuosa, dissacrante e tenera potesse esserci tolta.
Per questo non ho mai pensato che Enzo Jannacci potesse andarsene senza di noi. Ed ora, che le notizie mi costringono a credere che non ci sia più, lo sento vivo nelle tante sue espressioni o canzoni, nei gesti leggeri, ma scattanti e disarticolati impressi nella memoria, nel sorriso che ha suscitato ed è rimasto, come un dono, nel cuore.
Il suo mondo ha infatti ancora un’eco che si ripete nel nostro.
Ho subito la sua partenza come un’ingiustizia a cui non potevo credere e che non potevo compensare né fronteggiare in nessun modo.
Quando uscì, nei primi anni sessanta, El portava i scarp del tennis non si ascoltò soltanto una pezzo nuovo e inusuale, ma un modo diverso di trattare la canzone, di farne la voce non patetica né amara, ma fortemente spiazzante di un’umanità che viveva a lato della nostra quotidiana esistenza e che non chiedeva pietà o elemosina, ma si ritagliava ostinatamente, nell’indifferenza dell’emarginazione a cui era destinata, una dimensione propria in cui aria e cibo erano comunque meno importanti del sogno d’amore rincorso.
La voce di Enzo Jannacci, il suo movimento slogato e frenetico, la sua faccia con un sorriso che ti veniva voglia di condividere, tutto in lui era fantasticamente perfetto perché irregolare, irrituale, sconcertante, impressionistico.
Sì è vero, ha collaborato con molti grandi autori e musicisti; ma lui era diverso da tutti e marcava questa geniale specificità con leggerezza aerea di un acrobata che si ferma per aria, a metà di un salto mortale quasi a cogliere la nostra tensione per trasformarla in un ulteriore ribelle rimbalzo. E si sarebbe voluto essere così tutti perché la libertà lui l’ha saputa cantare senza nominarla, ma contaminandone ogni sillaba.
Non mi sono mai chiesta quanti anni avesse, e forse per questo non volevo credere che fosse davvero andato via; ho pensato e penso ancora a lui come a un bambino che non si lascia contaminare dal conformismo di un mondo in cui c’è una risposta ovvia per tutto, ma da piccolo investigatore cerca i sassi come se fossero pietre preziose e li avvolge nella luce di un foglietto di stagnola per far durare l’illusione.
Il suo barbone, il suo palo della banda dell’ortica, il suo telegrafista, il suo osservatore che “ha visto un re” ci rappresentano e ci avvolgono di luce umile ma sfolgorante.
No, non penso se ne sia andato.
Non si va via davvero quando si lascia così tanto.
Grazie Enzo. Ci si sente.