Ricostruisco, a ritroso, passi nella vita di scuola.
Qualche volta siamo anche senza sedia alla cattedra, altre volte senza riscaldamento oppure mancano non la lim, ma le carte geografiche (“Professoressa la chieda lei al laboratorio di geografia; ma deve firmare ed assumersene la responsabilità!”).
E poi lavoriamo in aule tristi e sporche perché le imprese di pulizia hanno a contratto solo di spazzare o pavimenti, ma non di lavarli; e la cura dei vetri delle finestre data in appalto ad altre ditte e quindi, di fatto, mai puliti per anni, l’acustica pessima e la voce in affanno, una realtà sostanzialmente scomoda, e i bidelli (con qualche buona eccezione) di regola appollaiati nelle loro guardiole difese come fortini :
- Io? io devo sta’ qua! Vada lei professoressa!
- Ma mi serve solo questa fotocopia e non posso lasciare la classe” o “Mi hanno convocato in Presidenza!”
- Io ho l’ordine di non muovermi (e il giornaletto o la settimana enigmistica che spuntano dal cassetto chiuso in fretta).
Eppure anche questa era ed è scuola. E non bastano i post dei nuovi insegnanti su social forum, che si rallegrano per le nuove applicazioni, ma continuano a deplorare i malfunzionamenti e i sovraffollamenti, a farmi cambiare idea. È scuola. Per questa ragione porto in classe, e dovrei aggiungere poco elegantemente incollandomeli, nonostante le vertebre recalcitranti, anche i pacchi pesanti ed enormi dei giornali del mattino. Chili di carta stampata, tra cui scegliere e commentare articoli, ma che sovente diventeranno, dopo la mia ora, palloni da lanciare durante la ricreazione: il progetto “Quotidiano in classe”. Nella foto si può notare il grosso pacco sulla sedia in prima fila.
Perché? Perché insegnare (per dirne una sola, parziale, definizione) è relazione tra persone, e non rappresentazione della relazione stessa.