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Merito e utilità del far scuola

Se è vero che sbagliato dire solo no e rifugiarsi nel passato è anche vero che innovare dovrebbe significare (provo a definire) fare ricerca per confutare, dove ci siano, gli errori e proporre nuove soluzioni, strade ed idee.
Nell’ambito educativo e dell’istruzione scolastica non possiamo dire solo no al merito e alla meritocrazia, ma dobbiamo pur riconoscere che una selezione di tipo meritocratico non è, di per sé, né innovativa, né uno strumento per insegnare/imparare meglio, né per educare; al massimo potrebbe esser considerato uno strumento per vagliare e selezionare in base ad un solo criterio; quello, appunto del merito.
E tuttavia dicendo così parliamo ancora in modo molto generico.
Infatti se non definiamo cosa sia merito e  (non meno importante)cosa il demerito stiamo già affondando nella palude delle parole dette a vuoto: prima di disegnare figure esatte occorre squadrare il foglio ossia, in questo caso, dare un senso alle parole.
Ad esempio:
1) uno studente è meritevole in quanto portatore di un patrimonio di qualità? E quali?
2) chi è meritevole riesce ad esserlo in ogni tipo di scuola, in ogni disciplina e con ogni insegnante del suo corso di studi?
3) il merito coincide con il successo scolastico?
4) dove individuiamo il merito nel processo educativo che prevede almeno due attori o, se vogliamo, due funzioni: quella di insegnare e trasmettere (dunque attrarre attenzione/interesse) e quella di apprendere ossia ricevere (e rielaborare)? Può esistere da una parte sola? Come e quando è diversificabile?
Questo breve elenco è imperfetto, abbozzato e parziale. 

Sono tante le variabili che potremmo osservare.Ma poi esiste la pratica. Molti bravi insegnanti (1) si muovono, di solito, con la prudenza ma anche con l’audacia di bravi esploratori che sanno quale sia la meta, rileggono e tarano giorno per giorno gli strumenti, ne inventano di nuovi, si confrontano con la realtà, raccolgono esperienze.Una base di una ricerca volta a confutare gli errori del passato e a cercare nuove e migliori strade per il futuro dovrebbe tener conto degli ultimi quattro secoli di ricerche ed esperienze pedagogiche. Ma non volendo essere pedanti possiamo almeno desiderare che chi si proponga con responsabilità direttive in questo ambito evitati scivoloni o errori di stile e contenuto tenendo presente almeno gli studi dal positivismo pedagogico ad oggi, poco più di centocinquant’anni, fondamentali.

E il merito allora? Certamente; quello della medaglia di primo della classe ci commuove ancora, perché no?
Tuttavia non sono quelle le sole lacrime che la scuola può far versare.
Il merito ci piacerebbe, ci piace: come insegnante anche a me sarebbe piaciuto esser considerata meritevole, ne avevo anche qualche titoluccio, e la vanità fa il suo lavoro. Ammettiamo tuttavia che non si insegna per sentirsi bravi, caso mai per sentirsi utili. Lo stesso desiderio di utilità non ci piacerebbe anche tra le doti ed i meriti di bravi ministri miur?
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(1) Sull’argomento può esser utile il resoconto di una discussione svoltasi nell’ambito del network La scuola che funziona fondata da Giovanni Marconato: “Il bravo prof

Il bravo insegnante lo sa

Abbiamo iniziato, con “Idee per la scuola”,  a rendere disponibili le sintesi delle discussioni avvenute tra gli insegnanti del network La Scuola che Funziona. Sono online. La prima è questa:  “Il Bravo Prof “.

A proposito di questo argomento, complesso e certamente da non considerarsi concluso, e a proposito di un’interessante riflessione di Francesco Consoli, che riguarda il tema da vicino, aggiungerei solo un breve e personale pensiero collaterale.

Fare l’insegnante significa aver scelto un lavoro difficile, spesso non supportato da elementi essenziali; si affrontano infatti un insieme di grosse difficoltà oggettive molto spesso presenti contemporaneamente. Ed è anche vero che l’inerzia non penalizza mentre l’agire, spesso, sì. 
Tuttavia questo mestiere non è un mestiere come gli altri e io non mi rassegnavo allora a farlo passivamente come adesso non riesco a parlarne passivamente. La vita a scuola è vita di relazione; se non ci si sente adatti è meglio non fare l’insegnante; se ci si sente adatti e ci si mette in quella prospettiva, allora la relazione è la chiave per iniziare a lavorare coi ragazzi. E forse sarebbe utile assumere la mentalità del seminatore più che quella del costruttore o del manager. Preparo, rifletto, lavoro, rifletto, semino, attendo: verifico me stesso e il mio risultato: ma so, devo sapere, che non dipende solo da me.

Se gli insegnanti non cambiano corrono il rischio di non aver più nulla da insegnare.

verso il domani, con energia pulita“Cambiare si può, subito e comincino gli insegnanti”. Questa la sintesi che scrive G. Marconato, già autore di un post su “Il bravo Prof”, in una discussione che si sta svolgendo nel network La Scuola che Funziona.
E’ da un pezzo, almeno tre anni, che alcuni di noi tra LSCF, post su Blog didattici o personali, social network e così via diffondono questo messaggio.
Potrebbe essere addirittura questa, e provo a dirlo in attesa di rielaborazioni o riscontri, lo sviluppo del “Manifesto degli insegnanti fase due”.
Aggiungo che anche i silenzi, le non risposte, la non partecipazione, il lasciar cadere i discorsi sono altrettanti modi per comunicare. E per dire che non si intende cambiare. Riflessioni, le nostre, che emergono anche da discussioni intorno all’identikit de “Il bravo prof” che stiamo analizzando per farne esperienza e provvista del cammino verso il domani.
“Cambiare si può, subito e comincino gli insegnanti” riassume lo spirito e le motivazioni: un’affermazione sospesa tra riflessione e provocazione, ma che non vuole e non dev’essere un boomerang che ci si riavvita attorno tornando al mittente, anche se il rischio c’è. Ma senza rischio non c’è nemmeno vita intellettuale.
Appare abbastanza chiaro che il cambiamento non sarà quello annunciato da una cometa, ma è il costruire mattone per mattone, anche con vecchi mattoni quando servono, ma con un modo di pensare e di proporsi diverso.
E chi invece si arroccava ieri, o oggi ancora si aggrappa a certezze relative al suo particolare, è già nell’archivio, anche se non se ne vuol rendere conto. Se si vuol progredire occorre cambiare, ma non si cambia se non ci si mette in discussione. Lo scrivo per me, lo scrivo come un promemoria. Lo scrivo perché posso dire di aver sempre imparato di più nel confronto che nell’accumulo.

La scuola, gli insegnanti possono cambiare la realtà perché hanno di fronte le nuove generazioni: sta a loro aprirsi alla relazione, al dialogo; attivare il contatto che trasmette e riceve. E’ di chi insegna, non della lontana galassia “istituzione” la responsabilità pesantissima di trasmettere non nozioni, ma la capacità di usare e inventare strumenti sempre nuovi.
Se gli insegnanti non cambiano corrono, invece, il rischio di non aver più nulla da insegnare.