Non appena è apparso all’orizzonte lo stendardo della Meritocrazia, anche i più torpidi tra i putrefatti che pisolavano ormai stecchiti negli stambugi-dormitorio (spesso del pubblico impiego, di enti e via dicendo) del “lascia perde è già tanto che sono venuto a lavorare, mica devo pure fare qualcosa?” si sono rianimati.
Si scopron le tombe, si levano i morti, diceva l’Inno Garibaldi; e quelli che oziavano, aggiungiamo, son tutti risorti.
Improvvisamente hanno scoperto di essere laboriosi e costruttivi lavoratori indispensabili, preziosi, anzi no: eccellenti e dotati di ogni abilità. (E io ne ho visti, purtroppo anche a scuola).
Ma la loro più fine abilità, coltivata nel sereno far-poco-o-niente di lunghi anni senza fatiche, è e sarà, non c’è da dubitarne, quella di buttare bastoni tra le gambe di chi ha lavorato una vita senza mai alzare la testa, di chi non ha mai chiesto di essere sollevato dalle fatiche del dovere quotidiano né con pretesti né con validissimi motivi.
Ora lo stendardo della Meritocrazia attira, chiama e lusinga, come le Sirene che innamorano i marinai e troppi tra tutti, ma specialmente troppi tra i peggiori, arrancano col petto in fuori, gonfiandolo,prontissimi a offrirlo per raccattar medaglie.
E sapete qual è la cosa più, ehem, sorprendente?
Che i meritevoli saranno evidentemente scelti dai loro dirigenti; e anche se tra i dirigenti che sceglieranno fior da fiore ci sono certamente ottime persone, sappiamo bene ci sono anche, ahimè! non pochi capi-cordata di quelli che a loro volta hanno scalato con ogni mezzo, meritevole o non.
E adesso il merito, signora mia? A chi tocca tocca.
E come non citare, per chiudere, lo spietato “Testamento” di De Andrè, applicandolo al testamento della nostra Italia che vacilla tra Costituzione repubblicana e boiate pazzesche ma pericolose?
“Voglio lasciare a Bianca Maria,
che se ne frega della decenza,
un attestato di benemerenza
che al matrimonio le spiani la via
con tanti auguri per chi ci ha creduto
di conservarsi felice e cornuto”.