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non giudicare

c’è solo un posto, il mio

Il nostro tempo, la nostra società italiana sono malati di opinionismo. Dobbiamo sempre dire qualcosa su tutti e tutto.
(Non mi esento, lo ammetto).
Siamo sempre pronti a sentenziare, e se abbiamo combattuto (ma chissà?) contro il vecchio “principio di autorità“, contro l’ “Ipse dixit” ci comportiamo, probabilmente, come se lo avessimo fatto non solo per detronizzare un principe tiranno ma anche per sostituirlo con il nostro Io.
Di contro vige un altro principio quello del relativista che provo a sintetizzare con il noto assunto: “tutti colpevoli nessun colpevole”.
Ecco, lo ammetto: mi danno disagio sia l’opinionismo che il relativismo.
Mi sento estranea e mi dà ansia che non si sia disposti a condividere pochi essenziali orientamenti come quello di cercare il buono anche dove non lo vediamo, forse a causa di una nostra miopia, e di guardare all’altro, chiunque sia, come un uguale.
Si fa presto a dire “siamo tutti sotto lo stesso cielo”: ma il posticino migliore? A chi spetta?

Ascoltare l’altro

*** da una forma ad un’altra, da due colori un altro colore ***

Imparare è una meravigliosa avventura, sempre. Mi piace imparare e vorrei farlo finché respiro. Penso che si impari molto con il confronto e il dialogo con l’altro. Non ci sono abbastanza pagine per imparare quello che ci trasmette un contatto, uno sguardo, un respiro, un odore. Potremmo imparare anche dai nostri bambini piccoli che, anche quando non sanno ancora parlare né esprimersi sono tuttavia, fin da subito, una trasmittente potentissima di segnali, notizie, segni e impulsi.

Privarsi dell’incredibile avventura di imparare quando l’altro sia una piccola creatura significa perdere o non ritrovare una bella parte di se stessi. Per viverla, invece, ci basta disporre all’ascolto i nostri sensi e la nostra anima.

L’ascolto attento è una disposizione della persona al contatto con l’altro. Sommergere l’altro di se stessi, delle proprie categorie, delle proprie interpretazioni significa annientare la reciproca comunicazione. Penso sia preferibile tacere che alzare la voce, nel silenzio c’è infatti un motivo profondo che sovente non si sa interpretare.

Accade di tacere e che il nostro interlocutore si soddisfi di se stesso pensando di avere prevalso; invece in quel momento l’altro è in fuga, e nella fuga rifiuta il potere debordante delle parole altrui. I pensieri, allora,  dirigono altrove e sanno stare in attesa di se stessi.

Non è vero che quando non si parla si perde, come si sente dire, il filo del discorso: semplicemente lo raccattiamo e riavvolgiamo il gomitolo. Lo stenderemo altrove e con altri disegni; la perdita è, se perdita c’è, esclusivamente per l’altro e nell’altro che ha rinunciato a cercare, a sua volta, il contatto e l’armonia uscendo da sé.