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Rovaio, ossia tramontana

Scende dai monti

Accade che parole suscitino pensieri. A volte una sola parola, raccolta casualmente da un discorso banale, innesca una reazione della memoria. Non solo le forme, i profumi o le situazioni, ma anche solo una parola può iniziare una reazione di catena di pensieri.
Ci sono parole particolarmente evocative: quelle come amore, pace, guerra, gioia o fame e così via sono tanto pesanti e importanti quanto, alla fine, purtroppo e troppo usurate.
Poi ci sono parole che stavano come scolorendo nella memoria e che, con un guizzo imprevedibile, accade di ascoltare.
M’è accaduto con la parola rovaio, colta in una domanda di un quiz televisivo.
Una caterva di memorie, prima confuse e incerte, poi via via più precise e definite si sono fatte avanti dentro di me.
Rovaio? Giovanni Pascoli, certo, in più di una poesia.
E a seguire il senso. Rovaio ovvero vento del nord, freddo, impetuoso: comunemente detto tramontana.
E quindi sì, la tramontana e mi sento di nuovo camminare al freddo che scende dal nord e dai monti, già all’inizio dell’inverno, con papà. Un cappellino di lana in testa, pantaloni e scarpette che non riparavano dal freddo. E vorrei sentirlo ancora quel vento freddo che frugava sotto il cappotto e arrossava le guance e il naso. Un freddo pungente, schietto, pulito, asciutto. Le strade sempre quelle di una città circondata da mura medievali. Mi piaceva camminare con papà mentre mamma e sorella, le pavide! rimanevano in casa.
Dov’è oggi quella tramontana? Sono sicura che nasca da qualche monte nevoso ma che si sgomenti incontrando le nostre città e giri per luoghi più degni. Certo gira per quelle colline dove le case non sono blindate da finestre e porte efficienti, certo fischia ancora nei camini antichi e sibila tra onesti infissi di legno.
Guance rosse come mele, ginocchia bianche di freddo, una mano in tasca e l’altra stretta in quella grande di papà.
Amo le parole, amo la parola rovaio, brividi di emozione non compensano quelli del freddo schietto e pulito della tramontana che fischiava nella mia infanzia. Ma la magia delle parole restituisce presenze e conforto: qualcosa che non si cancella.

Di scuola e di maestra

Ero là, col fiocco blu, il grembiulino bianco di bianco, cucito dalla mamma; nella foto io sono la terza alla sinistra della maestra.


Guardo sorridendo la mia maestra, la maestra Laura, che aveva gli occhi verdi, i capelli neri e la carnagione rosea, sorrideva sempre e indossava sempre, anche lei, un grembiule, nero, di rasatello lucido, che esaltava la sua figura alta, snella, proporzionata.
Di lei ricordo anche la voce, di lei mi piaceva tutto.
E mi piaceva la sua scuola.
Il voto? a volte una V maiuscola che significava “visto”.
Altre volte un avverbio: bene, benino …
O anche un voto, a numero.

Nulla, tuttavia, contava più della voce della Maestra. Il suo tono trasmetteva tutta una gamma di messaggi molto più intensi del significante, della parola stessa.
E le sue mani, che a volte raddrizzavano un fiocco, altre volte guidavano le nostre mani piccole e impacciate oppure indirizzavano, descrivevano, indicavano.
La scuola è relazione, è messaggio. Sono segni, quelli della scuola, che incidono e segnano in modo permanente.
Certo questo è il suo bello, ma anche il non bello.
Quel periodo, quel solo anno con la maestra Laura fu bello e ancora lo è.

La festa è Natale

Profumo di ginepro a Natale

Natale : venivano i nonni e papà si procurava un grande ramo di ginepro che diventava l’albero da decorare con palle colorate di vetro e piccoli oggetti di cioccolato rivestiti di carta stagnola che si potevano mangiare solo quando si disfaceva l’albero.
Qualche giorno prima di Natale, a volte, si partiva in treno per andare alla Upim di via Nazionale, a Roma, ad acquistare qualche filo d’argento e d’oro o le luci e altri decori in più per rinnovare l’addobbo dell’albero che sceglievamo fosse il ginepro anche perché profumava la casa con le sue resine che, accendendo il caminetto, odoravano di bosco ancora di più.
Era questo il Natale.
A Natale si pranzava coi nonni, si cucinava in casa tutti insieme: tortellini in brodo, faraona e strudel di mele erano obbligatori.
C’era anche una bellissima insalata russa, fatta con tante verdure tagliate a dadini tutti uguali, senza le stupide patate che la rendono farinosa e con i sottaceto parsimoniosamente distribuiti, era ovviamente amalgamata con la maionese. Anche la maionese era fatta in casa montando i tuorli delle uova, delle nostre galline, e facendo cadere a filo l’olio. L’insalata russa era di rigore. (Adesso qualche chef snob considera l’insalata russa roba passatista e magari ti ammannisce ceci e aringa 🙁 , che disgusto, ma si vede che non sa farla come si deve).
A Natale succedevano le solite cose: la carta stellata per il presepio, l’attesa, la letterina sotto il piatto di papà, la poesia mandata a memoria con l’aiuto di mamma. Ma soprattutto l’attesa che ci faceva sognare i regali.
Beh dico che sono stata fortunata.
Nessuno mi trascinava nei centri commerciali, nessuno mi ha imposto gli sci, nessuno mi ha obbligato a credere in quel panzone di babbo natale.
Scrivevamo cartoline di auguri, lo zio Sisto mandava un panettone da Milano e la festa era Natale e basta.
Le festività? I viaggi? Boh.
A Capodanno erano lasagne (verdi, fatte in casa, alla bolognese) e spumante. Avevo 5 anni quando ne rubai una coppa piena di nascosto e finii a letto prima di mezzanotte protestando disperata e mezza brilla: voglio ancora spumante.
Sono stata davvero fortunata.
Ho avuto feste normali, feste per cui bastava un paio di calzettoni nuovi, di solito con disegni scozzesi, come porta fortuna per inaugurare l’Anno Nuovo.
E dopo tutti a nanna.

Adriatico e infanzia

paste, pizze, crescentine!”

MARE Wp

le mani col sapore del mare

Per caso qualcuno dei miei amici vintage ricorda questa voce che veniva lanciata sulle spiagge dell’estate adriatica da venditori o venditrici, vestiti di bianchissima divisa, con altrettanto bianchi cuffia o cappello e scarpe di tela, lindi e vigili ai richiami di noi ragazzini imbrancati a far castelli col secchiello e paletta?

I venditori delle sospiratissime leccornie imbracciavano, a mo’ di sporta, una grande scatola rettangolare di legno verniciato di bianco. Era lo scrigno delle nostre delizie e si apriva con due sportelli finestrati a vetro da dove si potevano scorgere e, se la indulgenza materna lo concedeva, addirittura scegliere non solo paste, pizze e crescentine, ma anche degli spiedini di frutta fatta a pezzi e ricoperta di zucchero caramellato oppure i bastoncini di zucchero filato alla fragola o alla menta e colorati di rosa o di verde.

Il profumo della mia infanzia al mare è anche in quel desiderio, non sempre esaudito, eppure ogni giorno restituito, di veder aprire quella scatola imbracciata dalla signora avvolta dal candore, abbagliante di pulizia, del grembiule e del cappello, del pezzetto di carta in cui (“ma ti sei andata a lavare le mani?”) era avvolto il bastoncino di zucchero, e solo molto più raramente lo spiedino di uva caramellata per essere porto alle mani pulite sì, ma ancora salate di mare, profumate di mare.

Una donna passava e gridava: “paste, pizze, crescentine!”