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Presentisti, della qualunque

Per tante ragioni che non riassumo per ora (ma penso che molti le sappiano meglio di me) mi sento di affermare che esiste una parte di persone di questa società che ha deciso di tagliare alla base le radici con la cultura del nostro passato, e di veleggiare a vista, ma con gli occhiali neri da saldatore.61svyvp0unl._ac_sx425_
Non generalizzo, intendiamoci, ma senza un po’ di studio dove si finisce? Semplicemente nella galassia estesa di gente che ritiene che il futuro si possa edificare su qualcosa di ancora più effimero dell’edonismo: sul presentismo rappresentato da un piatto di cibo spadellato o su una muscolatura tirata a lucido, dal denaro e dalla prepotenza, magari annaffiata di alcool.

Sono i presentisti della qualunque. Sono i fuffa senza radici.
Per costoro la Storia è, quando va bene, quella raccontata dai documentari di qualche telegiornalista, l’Arte è quello che blatera Sgarbi, la letteratura inizia nel 1990 e la Scienza? Balle di virologi o ricette di dietologi. E si potrebbe continuare ad elencare i vari aspetti dell’ignoranza del presentismo della qualunque.

Ma fa troppa tristezza.

Sconfitta, dal voto contro

mostro BomarzoOra i media dicono che chi è sconfitto non aveva saputo parlare a una parte del paese; altri dicono che l’establishment era intervenuto invano e non ha saputo convincere, altri alncora che montano estremismi storici e populismo dejà vu. D’altronde quando, in passato, un altro miliardario sconfisse la sinistra si disse che era merito delle sue tante ricchezze e televisioni e colpa dell’inadeguatezza di altre reti e vecchie concezioni e vecchi politici che non avevano saputo essere rassicuranti, affabulanti, affascinanti, efficaci, quando non addirittura glamour nel comunicare.
E allora giù a imitare il vincitore di turno.
E difatti tutta la comunicazione, compresa quella politica è ben presto passata dal dignitoso, anche se sussiegoso, spazio dedicato, a quello del format dello spettacolo, dello spot, dell’immagine ammiccante, della canizza berciante ed ha contribuito a degradare ruolo e immagine della politica medesima a vantaggio della superficialità lasciando inoltre credere che chiunque potesse rivestire il ruolo di commentatore, di opinionista, di esperto di questioni complesse trasformate in semplicistica materia da bar sport o da fila allo sportello.
Si è fatto credere che tutto potesse essere semplificato e banalizzato epperciò poi gridato ad alta voce quando non urlato come un coro da curva.
Ma man mano che la politica diventava grossolano spettacolo, le questioni sociali passavano in secondo o terzo piano, abbandonate a materia per uccellacci del malaugurio, mentre la disuguaglianza negli ex diritti, la marginalizzazione dei bisogni primari o l’esclusione si facevano normalità. Nel contempo ci si affaccendava a sbriciolare rapporti sociali e a rendere avversarie le generazioni: figli contro padri e nipoti contro tutti.
A molti di noi, ma non lo diceva nessuno, diventava via via  sempre più insopportabile sia l’imposizione di un modello di società nella quale gli spazi per crescere e migliorare diventavano sempre più stretti ed escludenti, sia la mancanza di prospettiva per il futuro per le generazioni nuove e non solo. Abbiamo visto imporre una presunta meritocrazia laddove, invece, continuavano a prosperare malaffare e percorsi privilegiati tanto per citare solo gli esempi evidenti.
E in politica? Elementare: ci hanno prima esortato a votare turandoci il naso, poi hanno lanciato i media sempre più accalorati e concitati alla generalizzazione. Tanto sono tutti uguali, tutti sospetti, tutti complici, tutti rubano, tutti sotto avviso di garanzia; il che ha autorizzato il sistema, questa volta, a riaprirci il naso per piazzarci sotto liste precotte e preconfezionate sulle quali si poteva solo mettere una crocetta menopeggista o tantopeggista; a piacere, tanto sennò che fai? voti populista? voti destra? voti qualunquista? Eh no, mica siamo tutti babbioni; abbiamo perfino la possibilità di spararle dal profondo postando su fb, su twitter o qualsivoglia chat.
E allora i cosiddetti populismi, se proprio vogliamo chiamarli tali, si sono organizzati, e, la storia è nota, hanno raccolto le ragioni di tanta frustrazione e scontento che più nessun maquillage poteva mimetizzare; populismi che danno eco o voce, ma ancora non sappiamo se daranno soluzioni o, peggio, se sono così nudi e puri come ce la raccontano.
Ci hanno detto che questa era l’antipolitica. Ma come si fa a parlare con disprezzo e a classificare altri come antipolitica quando era stata proprio quella degenerata politica medesima a rinnegare se stessa e la sua missione disertando le aule del parlamento, immischiandosi o contaminandosi col malaffare, dimenticando i diritti degli elettori e comparendo, sempre più cafona, ignorante ma imbellettatata, h 24, in televisione, in radio, sui social?
Ci sono in giro tentativi di salvezza;  qualcuno tenta di far funzionare una ciambella di salvataggio andando a lavorare a l’estero o, se può permetterselo,  facendo studiare i figli in ambienti formativi costosi, esclusivi e selezionati, sperando o illudendosi di dar loro una possibilità, ma sappiamo bene che la povertà inesorabilmente cresce, e probabilmente attanaglierà anche per loro.
Ma ci sono quelli che ciambelle non ne hanno e allora anche se alcuni di loro hanno storto il naso, sono stati molti di più quelli hanno cominciato a pensare che, se non ci si voleva definitivamente astenere delegando ai peggiori mai visti, non rimaneva che una possibilità: il voto contro. Comunque contro.
Inevitabile, a questo punto, constatare che il disagio non è solo nostro, ma è il globale risultato di una globalizzazione liberista ragion per cui, ad esempio, potremmo dire che il famigerato e recente #voto contro non è stato causato soltanto da errori della comunicazione politica o mediatica, e nemmeno dalla nausea verso il cosiddetto establishment autoreferenziale, ma principalmente determinato da ingiustizie, disuguaglianze e frustrazioni imposte dal liberismo contro i nostri figli, contro noi. E noi siamo contro loro.
Se non piace pazienza, se non fa  fico amen; ma loro non si votano più.
Nè in Italia nè altrove; e se quelli-della-politica hanno un minimo residuo di rispetto verso le ragioni vere della politica si dovrebbero dare una regolata e non continuare a lucidare gli stivaloni del liberismo sicuri di goderne, almeno, il riflesso.

Mariaserena

Guerrafondai in conto spese (altrui)

Invocare, accettare o anche ipotizzare l’uso delle armi da parte dell’Italia contro un nemico (qualsiasi) significa constatare il fallimento di decenni di vita di organizzazioni e organismi internazionali, significa non richiamare fortemente i suddetti alle loro responsabilità, significa ammettere che siamo incapaci di essere costruttori di pace, significa anche non capire che siamo pedine che subiscono e non protagonisti attori di un gioco deciso altrove.

Significa anche rinnegare la costituzione, ma questo ormai accade a 360, e più se possibile, gradi.
Infine, e mi limito, significa che non abbiamo studiato la storia, che non abbiamo capito cosa sia davvero una guerra e che siamo ancora soggetti alla logica del passato. Significa che non abbiamo a cuore i piccoli, i deboli, gli indifesi ma solo il nostro personale fortino ben foraggiato.
Manteniamo da decenni istituzioni internazionali: non possiamo ricordarci delle nostre spese e tasse solo per bofonchiare contro le auto blu.
Vergogna.

Il petrolio è il lavoro

 

“Il nostro petrolio è il patrimonio artistico!” proclama molta parte della gente nuova o riciclata scambiando, ad arte, l’effetto con la causa.
Tutti i messaggi di questo tipo sbilanciano infatti l’attenzione di chi ascolta verso una esaltazione strumentalizzata della bellezza e rafforzano la convinzione che l’apparenza, l’immagine, l’estetica siano una sicura strategia di successo.
Sulle opportunità e le eventuali fonti di ricchezza, invece, si dovrebbe anche dire che la bellezza sia quella delle Arti sia quella dell’Artigianato, del Design e altre non esiste solo grazie al genio individuale dell’Artista creatore. Fondamentali coproduttori della bellezza sono stati indispensabili operai, scalpellini, manovali e muratori che hanno innalzato edifici o cattedrali da abbellire con quadri, statue, cupole, mosaici; sono statu gli indispensabili artigiani umili che con le loro mani hanno fabbricato strumenti e ideato soluzioni; sono state  le preziose le sarte ricamatrici, i fabbricanti di bottoni, i tessitori di sete e broccati; e ci sono voluti operai di fabbrica per fondere, assemblare, mettere in produzione il progetto. E sono fondamentali la dedizione e la competenza, la fatica e il lavoro dei restauratori che quotidianamente preservano le opere. L’elenco qui scritto è solo parziale ed imperfetto suggerimento; ciascuno di noi può riflettere e scoprire quante persone hanno lavorato e lavorano per ottenere un prodotto, un’opera che possa essere ascritta alla categoria della bellezza
A ben riflettere scopriamo che il nostro vero petrolio è il lavoro, appunto non il suo effetto. Ma tutto questo cosa può importare a chi non ama la bellezza ma il potere?