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Vecchie riflessioni su insegnare ed apprendere

Tappe di avvicinamento: in viaggio con lo sherpa

Molte emozioni che, da insegnante, ho provato durante il mio lavoro, sono difficili da definire per me; provo infatti a raccontarle, ma mi rendo conto di avere un’identità eterogenea: non posso più parlare da insegnante e non posso nemmeno parlare da allieva (per tanti raggiunti limiti e differenze: dall’età alla professione e così via).

Però mi pare di avere intuito qualcosa attraverso una tappa in scalata, per così dire, di accostamento e vado a spiegarmi.

Una mia classe: un mondo in veloce evoluzione

Le lezioni di letteratura, di cui ho un po’ d’esperienza, mi costringevano, prima di poter condurre gli studenti a una comprensione corretta, a seguire  quasi sempre, una lunga rotta circolare o meglio a spirale: ma non si cominci ad infilzarmi con la geometria, per favore pietà.

I ragazzi, che volevano capire in fretta e raggiungere un buon voto, mi assediavano: avrebbero voluto subito delle definizioni; e da qui le domande: “Ma cos’è il Romanticismo? cos’è il Verismo? perché c’è un pessimismo manzoniano e un leopardiano e perché sono diversi? Perché realismo e verismo sono due correnti che vivono nella stessa epoca del decadentismo?”

Ma partendo dal loro contesto (o sostrato, o conoscenze pregresse) assolutamente estranei al linguaggio, ai concetti filosofici e alla percezione stessa della complessità, a volte necessariamente ambigua, di alcuni concetti propri della letteratura, non era possibile dare risposte secche; da Bignami, per capirci.

E inoltre io rifuggivo da quelle nozioni-definizioni  che loro avrebbero imparato, e molto volentieri, a memoria, magari  senza capire.

Per cui prendevo tempo per girare intorno alla questione dipanandola, facendo leggere testi, suscitando discussioni, cercando correlazioni, attualizzando e talvolta scherzandoci un po’ sopra.

Ad un certo momento, e l’emozione la rivivo ancor oggi,  scattava qualcosa. Uno studente, o una studentessa alzavano la testa dal solito diario su cui per giorni aveva continuato a scribacchiare e istoriato sigle e colori, disegnini e messaggi,  cornicette e tvb, e dicevano: “ho capito!”

E quasi sempre avevano capito davvero. Purtroppo la percentuale di successo difficilmente arrivava alla totalità; ma anche chi non riusciva ad entrare in piena sintonia, per lo meno evitava equivoci e soprattutto la banalizzazione di ciò che banale non può essere.

Quello era, anche per me, il momento del sospiro di riconoscimento.
E non potevo non sorridere anche se avrei preferito, forse l’ho fatto, anche baciare in fronte la pioniera (o il pioniere) della classe.

Dopodiché il pioniere riusciva anche a fare da sherpa, insieme a me, verso la vetta provvisoriamente raggiunta.

Un vertice si può raggiungere mediante una spirale? Non è forse, spesso, proprio così?

Di scuola e dell’imparare

MariaSerena

(tra letteratura, realtà e paradosso)
A volte siamo costretti ad ammettere che nelle aule gli studenti sopravvivono; e sopravvivere non è il modo più bello di vivere. Ci sono ottime eccezioni, ma qui vorrei mettere il dito in una piaga, non in un fiore.
Questo accade quando per essere approvati devono adeguarsi al modello che colui che siede in cattedra (non è necessario chiamarlo comunque docente) impone.
Ma il dubbio sorge: possiamo davvero dire che se ripetono quello che gli si impone i nostri ragazzi hanno “imparato”?
Se  vengono a scuola per ricevere norme, regole e un tot di cose da trattenere nella mente possiamo anche chiederci: “per quanto tempo quel tot di cose rimane in memoria?”
E possiamo anche dubitare : “hanno davvero imparato?”
Su questo non penso si possano dare risposte definitive e assolute, ognuno cercherà (se vuole) la sua risposta, la mia vorrei esprimerla con un paradosso: imparare è come partire, ossia morire. Il vero apprendimento è costruzione infinita.
Si apprende quando si riesce a reagire e interagire attivamente nella realtà in cui si vive possedendo gli strumenti necessari.
Ma devo ammettere che questa stessa affermazione è anche un’opinione su cui discutere.
Speravo di non dovere sentir dire per sempre e nemmeno per molto che la scuola ha come scopo di fare imparare.
E propongo un esempio emblematico.
Quando, alla fine del suo libro l’autore Manzoni fa dire al protagonista Renzi “ho imparato, ho imparato, ho imparato,” il romanzo, guarda caso, finisce; il protagonista smette di essere interessante e torna ad essere uno qualunque. Renzo riassume i vari casi e vicende che alfine ha superato per poter ritrovare Lucia e sposarla. Da quelli ha imparato. Ma a nessun lettore viene in mente di volerne sapere di più e forse solo pochissimi si chiedono se e quando imparerà qualcosa di nuovo. La storia è finita.
Eppure aveva imparato nel modo più naturale: dall’esperienza e dall’errore. Dunque fine dell’esperienza significa fine dell’apprendere? Un bel paradosso, no?
Vorrà dire qualcosa? O da allora non è cambiato nulla?
FINE DEL PARADOSSO.
Ma Bianchi tutto questo non l’impara.

Logica, maestra di verità .

 Se accettassimo di applicare, in modo serio e corretto, la logica alle nostre deduzioni potremmo non solo fare a meno dei pregiudizi, ma anche di quella sorta di pseudo sicurezze intoccabili che stanno rendendo anche le nostre relazioni sociali superficiali quando non problematiche.
Attualmente si può correre il rischio di sentirsi affibbiare spiacevoli etichette solo perché, invece di veleggiare sulla scia di pensieri e luoghi comuni conformisti dominanti e popolari, proviamo ad analizzare dati reali deducendone considerazioni sensate. Aggiungo che la logica sarebbe un insegnamento prezioso per tutti, bambini compresi, naturalmente, ma fondamentale per noi adulti che invece ci esprimiamo troppo spesso solo emotivamente e con le conseguenze che vediamo.
D’altronde le brutte frasi così care alle celebrità televisive : “mi arriva”, “lo sento di pancia”, “mi comunica perché mi emoziona” e così via, seguono proprio la linea secondo cui la pancia serve e il cervello può tacere; figuriamoci la logica.