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Roma, Alemanno e… er penziero de Marco Aurelio – by Mariaserena

Er penziero de Marc’Aurelio
Qui troneggia, ar Campidojo,
una statua sur cavallo:
 gnentemeno… Marc’Aurelio!
Se finisse d’Alemanno
‘sto periodo buio e perso
forse forse anche i romani
se sentissero itajani
e no fiji de na lupa
che i gemelli s’è magnata!
Marc’Aurelio guarda austero:
“Nun ce credo! nun è vero!
Ma se scendo dar cavallo
statte attento a te, Alemanno!”

L'Imperatore Marco Aurelio, noto anche per la sua saggezza

Scrivere? A scuola no.

Mi sono spesso chiesta perché le ragazze e i ragazzi che odiano fare il tema, non perdono occasione per scrivere le loro parole altrove: non solo nel diario o con gli sms, ma spesso nei loro blog e nei social network. E non solo: scrivono poesie, coniamo slogan, lanciano nella lingua viva e vissuta modi di dire che diventano di uso comune, titoli di film o di romanzi. Insomma loro dicono, parlando e scrivendo, ciò che sono, sentono, provano, sognano; esprimono i loro sentimenti, le rabbie, le ansie, i desideri. Lo fanno con le loro parole, le scrivono, ma non nel tema. Non è facile dar loro torto.
Il tema è imposto da un o una insegnante che ha già in testa tutto: quello che vuole sentirsi dire,  il modo in cui deve esser detto, il tono con cui pretende sia espresso. Un ragazzo è polemico e diretto?
Errore! Deve essere moderato ed equilibrato.
Una ragazza è esplicita e sincera?
Errore! Deve esprimersi con  moderazione ed equilibrio.
Ragazzi e ragazze pretendono di dire quello che pensano davvero?
Doppio errore: devono esprimersi in modo equilibrato e corretto, essere in sintonia con quello che c’è nel cervello all’insegnante ed omologarsi.
E siccome non possono quasi mai farlo, allora odiano il tema. E continueranno per tutta la vita a sentirsi a disagio se devono scrivere qualcosa che esca dalla loro cerchia fidata. Come dargli torto? Forse la nemesi li potrebbe liberare? E se diventassero insegnanti? Meglio non pensare alle conseguenze.

Creatività e fertilità della mente: come una metafora di vita

Disegno di una bimba: Un papà e una mamma con una bimba nella pancia (è la sua storia)

Omologati e inscatolati, catalogati e selezionati per categorie, come le uova con la data di deposizione+il calibro+il colore del guscio+il cartoncio 2×6 cosa diventiamo? Uova da mangiare e non da nascita. Siamo sterili e non creiamo né vita né idee. E’ facile allora cadere nelle trappole. E la causa risale anche ai “danni dell’educazione” che è quasi sempre omologante ed omologata su schemi che prevedono tante cose, tante regole, tante strutture. E ci dimentichiamo di trasmettere esperienza, di narrare e ascoltare. Io penso che sia più bello e giusto trasmettere per comunicare che non comunicare per istruire. Raccontiamoci le cose, quelle vere e nostre. Non vi siete accorti che il “gossip” è un’altra droga?
Guardate questo disegno: un papà e una mamma con un bimbo nella pancia… 🙂 by nipotina quando aveva 4-5 anni . Speriamo che la scuola non faccia danni…

Narrare, raccontare ovvero la restituzione dei colori – di Mariaserena Peterlin

CAPITOLO 1

Credo che alla natura umana sia potenzialmente impossibile non raccontare, e penso che si inizi spontaneamente a farlo ancora prima di saper parlare.
Immagino infatti che, le prime volte, si racconti a se stessi.
Proviamo a ricordarci piccolissimi o appena nati o prima ancora di nascere; proviamo a ripensare a quelle che potevano essere le indefinite percezioni native colte in quel tempo dal nostro organismo: il movimento, l’ondeggiare nel liquido amniotico, la sensazione emozionante di cadere (che conserviamo per sempre e proviamo spesso prima di addormentarci, o ricreiamo nei giochi infantili), ogni messaggio trasmesso dai sensi che si stanno formando e che solo dopo giungeranno a uno stato di più completo funzionamento. Proviamo a pensarci.
Come si convive con le nostre emozioni se non sistemandole in una narrazione rassicurante o inquietante?
Come si forma la conoscenza se non attraverso l’esperienza?
Perché l’essere umano, pur piccolissimo eppure tutto perfettamente organizzato affinché compia, stadio per stadio, la sua evoluzione, non dovrebbe cercare di trattenere quelle esperienze prime, o primordiali e perché non potrebbe rendersi conto che a volte si stanno ripetendo o stanno mutando?
E come reagirebbe se non sistemandole nella sua memoria, catalogandole nelle sue percezioni, nei segni e nelle tracce del suo cammino verso la conoscenza?
 
Per questo penso che si inizi a narrare da subito, non appena il cervello inizia a ricevere barlumi di segnali e poi si continui in maniera via via più consapevole, a se stessi.
 
Quando acquisiamo la parola inizia un’altra avventura ben diversa e apparentemente più libera, ma è poi così?
Non scegliamo noi la lingua che apprenderemo, né il contesto socio-affettivo e culturale che ce la trasmetterà.
Tuttavia la impariamo, è necessario.
Prima ancora di saper ripetere le parole che ci vengono rivolte ne impariamo il suono e il significato. Iniziamo a temerle e a gioirne, a riderne o a provarne paura.
E tutto questo: timore, gioia, riso, paura, insieme a tante altre sensazioni non ce lo diciamo forse dentro? Non ce lo raccontiamo e ripetiamo?
Come potremmo farne a meno?
 
Quando impariamo finalmente un numero sufficiente di vocaboli e ne conosciamo il senso allora gioiosamente vorremmo dirli per essere ascoltati e narrare, narrare tutto quello che abbiamo dentro, per questo ci piace essere ascoltati.
 
Ma proprio in questa fase meravigliosamente piena di potenziale narrativo iniziamo a ricevere istruzioni: si dice/non si dice. Si parla quando si ha il permesso. Si devono dire cose che piacciano e non quelle che danno dispiacere.
Insomma, ammettiamolo, si subisce: una sorta violenza, a fin di bene, come si suol dire, che rappresenta una costrizione un po’ mortificante. Mutiamo, ma non apprendiamo abbastanza liberamente da conservare quello che già sapevamo.
A questo punto sospendiamo il narrare e raccontare per poter iniziare ad esprimerci con parole, ossia a parlare e dire, non a raccontare.
Ma quella, per l’appunto, non è la nostra narrazione. Né lo sarà mai più.
Naturalmente si vive lo stesso.
Ovviamente si può anche vivere benissimo e avere successo nella vita; le convenzioni sociali non ci chiedono, infatti, di esprimerci con naturalezza su noi stessi o su come leggiamo ciò che ci circonda.
Le usanze della vita sociale e civile ci chiedono solo di essere integrati e piacevoli. Non è troppo difficile adattarsi crescendo, si subisce però una specie di mutilazione che mascheriamo in modo soddisfacente.
 
Solo alcuni conservano la primitiva e spontanea dote narrativa, nonostante la mutilazione, senza esserne completamente modificati.
Sono coloro che attirano e a volte si fanno amare perché si esprimono in musica, in poesia, in letteratura, in arte, con la mimica e in molte altre forme possibili ricavando per se stessi, o meglio recuperando, uno spazio di libertà che difficilmente riesce ad essere intero, ma è prezioso e trasmette gioia agli altri.
 
Oggi abbiamo tuttavia qualche difficoltà a riconoscere i narratori veri. Ci siamo inventati delle tecniche di comunicazione omologate e compulsive in cui contano moltissimo la gestualità, l’immagine, l’affabulazione persuadente e soprattutto la velocità e l’impatto.
 
Comunicare in modo efficace è certamente una tecnica che è legittimo e necessario conoscere; ma è giusto tener presente che questo non è né narrare né raccontare.
Sarebbe una gran bella cosa, invece, se almeno chi persiste nel narrare o raccontare potesse mettere a nudo la sua ispirazione e il proprio modo di vedere ogni essere che lo circonda e che li rappresentasse con candore.

Il recupero della nostra anima bambina che abbiamo ammutolito con quella che viene considerata l’educazione alla socialità e l’istruzione avrebbe, in tal modo, la possibilità di esprimersi.
E sarebbe come riuscire a scomporre l’unica luce bianca, a cui siamo esposti forzatamente, per veder riapparire, come attraverso un grande prisma di cristallo, tutti i meravigliosi colori che la compongono e potremmo aver dimenticato.