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La brace

Crepita la brace del cuore

mentre assorta in silenzio

ascolti un suono che non fa rumore.

Silenziosa è una porta che disegna

un raggio di compasso e uno di luce;

hai lasciato che il battito si quieti

come un fruscio di vesti accomodate

a balze e frange

come scialle o ventaglio

che nasconde l’amabile sorriso

o lo sbadiglio.

Il consenso (cercasi versi)

Il consenso
Eppure stona, sollievo inesistente,
voce che aggira e narra a vuoto
insieme camuffato, dentro il vuoto.

Sussurra la minaccia convertita
in suoni e voci piccole o sottili
sbrindelli di notizie in rari fili.

Né logiche ragioni o vero dice,
non dice e poi ridice se conviene.
S’abbevera smanioso alle catene
il collo piega, in massa se ne viene.

vento sul mare

Vento sul mare Adriatico – Foto di M.Serena Peterlin

 

Della poesia, ovvero “cosa non detta in prosa mai, né in rima”.

sashabenedetti-1999_orig

Nel titolo di questo post cito, come si vede, uno dei versi più famosi dell’Ariosto che s’accinge a narrare la follia d’Orlando. Ariosto quasi si giustifica: narrerà sì dell’Orlando paladino, peraltro celebrato fin dal medioevo nella Chanson de geste ad esempio, ma ne dirà qualcosa di inedito, non detto precedentemente né in versi né in prosa. Di tale prudenza è, per dir così, il proemio di uno dei nostri maggiori, di una delle nostre corone letterarie, che sente la necessità non soltanto di creare un’attesa nell’eventuale lettore (e quanti milioni ne avrà avuti invece!) ma anche di chiarire che sa di inserirsi sulla scia di una tradizione: scrive perché dirà qualcosa di nuovo, di inedito. Altrimenti, potremmo interpretare, non avrebbe scritto affatto e tanto meno un così vasto poema.
Perché allora immagino che potrebbe essere utile, o forse necessario, scomodare un così emblematico genio e aggiungerne una nota citazione? Solo per eventuali curiosi non addetti alla letteratura, prendo spunto dal Foscolo il quale in Notizia intorno a Didimo Chierico scrive «Aveva non so quali controversie con l’Ariosto, ma le ventilava da sé, e un giorno, mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, esclamò: Così vien poetando l’Ariosto».
L’Ariosto e la sua ispirazione rappresentati come onde inarrestabili dell’Oceano. Un autore tale non può, infatti, fare a meno di scrivere, non può trattenere dentro di sé la poesia e, d’altro canto, i suoi versi gli corrispondono: estesi, larghi, naturali, armonici ed inediti, materia umana in tutte le sue gamme e immagine fantastica senza limiti.
Ma allora, e mi ripeto, perché la mia presunzione di scomodarlo in un modesto post di un piccolo blog come questo?
Solo per un paio di altrettante modeste, e prosaiche, ragioni che tento di descrivere in modo schematico:
A) Oggi non si scrive più in rima: tuttavia la poesia ha bisogno, ad esempio, di ritmo e di suoni, di musica e di assonanze, di rallentamenti e riprese; non basta aver cose da dire, non basta aver voglia di comunicare, la poesia ha bisogno di arte, artigianato e, a volte, di un minimo di mestiere.
B) Non basta, inoltre, sentirsi “ispirati”. Tutti, nelle diverse vicende della vita,  ci sentiamo emozionati, commossi, rallegrati o rattristati da qualcosa, ma non per questo possiamo presumerci poeti se ne scriviamo con frasi rotte andando a capo.
C) É vero, non è necessario scrivere in rima: ma l’esercizio della rima, ed anche della metrica tradizionale, credo dovrebbe essere umilmente praticato prima di buttarsi a scrivere in versi liberi (che liberi sono solo in apparenza!)
Anzi direi proprio che esercitarsi a rimare e scrivere secondo schemi metrici (sonetti, ottave e così via) dovrebbe essere come il foglio rosa prescritto a chi impara a guidare.

Non siamo, infatti, tutti Oceano, e troppo raramente nasce un Ariosto che a lungo a sua volta ha studiato, riflettuto, corretto ed emendato.
Quanti lo fanno? Quanti invece surfano tra sinonimi e dizionari, tra rimari e echi spericolati di un animo commosso o dal corazòn espinado?
La mia è una posizione, probabilmente, poco amabile; ma lungi da me lo scoraggiare la scrittura libera; il mio impegno modesto consiste nell’invito a leggere i grandi, a riflettere e studiare, a usare con prudenza da contagocce il definirsi poeta o poetessa.

Mario Badino, Cianfrusaglia, Notte d’estate


Confusi, fuori fuoco,

il mondo ci lascia passare

contro uno sfondo fisso

fatto cielo e pietra.

 

Malgrado la luce sia accesa

sopra la scena vuota

gli attori disertano il palco

sospinti da nuove passioni.

 

Tutto il rumore umano

finisce per evaporare

dentro il canto stridulo

della cicala antica.

 

C’è una saggezza quieta

nell’aria silenziosa e fresca,

che ti punge le braccia

delle notti d’estate.

Non tutte le riflessioni e non tutti i pensieri ricorrenti delle notti estive conducono a un esternare autoreferenziale attorno a quegli ombelichi che tuttavia giocherebbero da protagonisti tra bronzi spiaggianti e rinascenti sirene.
La poesia di Mario Badino sembra tollerare, quasi ignorandola infatti, la quotidianità apparente e lascia che la stessa si perda sulle autostrade infestate da troppe parole.
Mario si concentra sul fuori fuoco sull’assenza delle scene vuote disertate da attori indaffarati e raccoglie quel poco che resta del rumore umano (rumore, appunto, non voci, non suoni, non sensi) nel vapore, ossia nel prossimo dissolvimento, del canto stridulo della cicala antica.
Trova infine anche lui la quiete, sorella amata da tanta poesia, nell’aria della notte d’estate.
Quell’aria che la saggezza popolare vuole si purifichi, nel silenzio delle tenebre, da ogni eccesso delle calure del giorno.
Non un canto sofisticato dunque, ma una voce schietta, scolpita  ed essenziale: la voce di un giovane poeta che sa valorizzare la cianfrusaglia del presente ma anche individuare l’essenza di quel senso che non si perde nel trascorrere del tempo e indica il futuro.

I riferimenti del libro Cianfrusaglia qui