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Pensiero forte VS poteri forti

Con le mani

Appartengo a una generazione, che non ha avuto paura dei temi forti anche se, probabilmente, non li abbiamo affrontati come si deve.
Oggi no, non c’è nulla di forte; oggi tutto è mediato, stemperato, politicamente corretto e acquiescente a questa mediocre realtà che ci viene ammannita come “dura ma necessaria”.
Ma non riusciranno a farmi pensare che il duro e necessario sia anche utile.
Utile è ciò che cresce progettando, non ciò che spegne altri arricchendo se stesso.
E loro arricchiscono.
É dunque loro la vittoria?
Solo se l’accettiamo. Ma possiamo non accettarla e pensare diversamente e vivere diversamente per trovare il tempo per leggere, scrivere e continuare a pensare che c’è un altro futuro possibile, senza di loro.
Come? Anche dicendo no, anche rifiutando di tapparsi il naso.
E’ stato allora, quando ci siamo, per la prima volta, tappati il naso, abbiamo chiuso anche gli occhi e le orecchie ed abbiamo rinunciato all’etica, alla solidarietà e messo il cervello nel Domopak, in frigo depositando un voto, estorto dal compromesso, nell’urna
E’ proprio da quando ci siamo accontentati del meno peggio che il pessimo maleodorante e la volgarità furba ma ignorante hanno cominciato a impacchettarci e a metterci sottovuoto.
No, ripeto, non riusciranno a farmi pensare che sia duro ma necessario ed utile rinunciare alla dignità del lavoro, alla giustizia sociale, all’uguaglianza, ai diritti fondamentali che ci erano stati garantiti perchè conquistati dai nostri padri.

L’incubo deve finire.
Dovessimo pure ricucirle, le nostre bandiere devono tornare al loro posto.

Il mio nuovo manifesto? Insegnare non è da tutti – di Mariaserena Peterlin

No, non basta mettere pietre miliari sul nostro cammino, è necessario anche proseguire e cercare nuove strade. E per trovare una strada è necessario sapere dove voler andare e guardarsi intorno.Dal mio osservatorio guardo, vedo, cerco di capire. E mi sono formata qualche opinione che sono pronta a discutere. Una di queste opinioni è che insegnare sia un difficile mestiere, e quindi un mestiere non da tutti.Non è una cosa nuova? Non importa, io provo anche a dire perché.

Insegnante, un difficile mestierehttp://www.scribd.com/embeds/72802429/content?start_page=1&view_mode=list&access_key=key-19vn4z182yt55p047h9(function() { var scribd = document.createElement(“script”); scribd.type = “text/javascript”; scribd.async = true; scribd.src = “http://www.scribd.com/javascripts/embed_code/inject.js”; var s = document.getElementsByTagName(“script”)[0]; s.parentNode.insertBefore(scribd, s); })();

OPPORTUNITÀ DIVERSE E GENERAZIONI A CONFRONTO – di Mariaserena

maniAccanto a me che scrivo tempestando la tastiera c’è il lettino del mio secondo nipotino che dorme. Guardo il suo sonno meraviglioso (quale altro aggettivo potrei usare, e vorrei anche mettere la M maiuscola) e non posso non chiedermi se anche lui finirà nel trita cervelli in cui tanti, troppi giovani e meno giovani sono dolcemente finiti.

Spero di no, spero che l’anima umana rimanga almeno per i bambini, spero che arrivi una svolta e si torni ad alzare la schiena, a togliere gli occhi da troppi display, per levare gli occhi alle stelle.

Ma se anche non arrivasse, e non la spero a breve, mi chiamo responsabile di quello che accadrà in futuro e mi chiedo guardando la culla: cosa sono i bambini? Mattoni da inserire in un muro in mezzo ad altri mattoni uguali o da livellare, scalfire, limare perché si adattino al singolo spazio che gli è destinato?

No, non sono mattoni. Ma lo diventeranno. Dipende da ciascuno di noi.

 

Quello che è successo negli ultimi quarant’anni è dipeso dall’attuazione di un progetto di demolizione che ha colpito sia la cultura sia l’istruzione, sia, e soprattutto, la trasmissione del sapere pragmatico e sociale insieme ai valori fondanti ogni singola nostra famiglia, comunità, paese e città.

Quello che è successo è sotto gli occhi, ma si distoglie lo sguardo e si reagisce dicendo “che possiamo fare?”.

Si può fare pochissimo se vogliamo farlo comodamente, ossia senza spostare nulla nello schema rassicurante, confortevole pur se miserabile in cui siamo precipitati.

Si può fare quello che hanno fatto i nostri predecessori (dai nonni in su, risalendo all’indietro) se fossimo capaci di dare anche vita e sangue per le nostre libertà e le nostre dignità. Ma già, le parole vita e sangue disgustano a meno che non se ne parli in un rassicurante approfondimento da talk-show in cui la sigla incornicia chiude ogni storia tra saccenti e scosciate di turno.

Perché questo mio amaro scontento?

Perché è facile dire alle generazioni precedenti: “voi avete avuto opportunità che noi non abbiamo”.  Questo si dice, ancora una volta, parlando da schiavi col cervello tritato; questo è il ritornello che i media e i politici insieme alla più titolata finanza mettono in bocca ad una gran parte di nostri presunti giovani tra i 25 e i 40.

Queste sono sciocchezze. Ma sciocchezze criminali.

I vostri vecchi e i loro figli, e ancora ce ne sono e vi dà a volte impiccio vederveli intorno, se la sono vista con un regime totalitario orribile che però è stato liquidato in vent’anni.

Hanno avuto la guerra con migliaia di giovani al fronte e la guerra in casa, anzi casa per casa: violenze, stupri, fuciliazioni, rastrellamenti e l’hanno risolta in meno di cinque anni.

Hanno ricostruito, anzi hanno costruito dalle fondamenta, un’Italia in cui non solo non c’era lo stato sociale, ma non c’era nemmeno la casa e il pane, l’acqua corrente e le medicine.

E voi pensate che le “opportunità” che voi non avete e che noi avremmo avuto siano arrivate con la cicogna?

Ebbene io vi dico che molti di voi, con questa mentalità, non avrebbero sopportato non solo il regime, la guerra, la resistenza, l’occupazione tedesca, la fame, la morte dei cari e le violenze del dopoguerra, ma nemmeno la mia maestra di terza elementare (l’aguzzina suor Livia), nemmeno le mie professoresse di latino o matematica delle medie.

Sarebbero scappati tra i leggins della mamma e lei, appena tornata  di fretta dai suoi impegni, avrebbe telefonato all’avvocato per far causa alla scuola.

Per questo vi dico: io mi chiamo responsabile anche di mio nipote, pur sapendo bene che i primi e più importanti per lui sono mamma e papà. Lo dico perché chi si chiama responsabile per una vita intera non si tira indietro mai.

E voi allora che fate?

Continuate a prendervela con le mancate opportunità ripetendo gli slogan del signor Draghi?

Allora accettate pure quest’ultima esca e la demolizione che frantuma l’ultimo legame sociale ormai labile, ma che comunque infastidiva ancora il potere mediatico-plutocratico (ossia dell’informazione al guinzaglio della finanza internazionale) e continuate pure a pensare che una volta spacciato l’uomo di Arcore tutto sarà più bello e splendente che prima. Magari!

E soprattutto continuate a contrapporre l’io al tu, il voi al noi.

E qualcuno  trionferà.

Tarderà molto a nascere, se nasce, una generazione nuova.

A chi, come me, si chiama e si chiamerà sempre responsabile toccherà una nuova sconfitta, ma statene pur certi, non ci sentiremo vinti.

Il cielo stellato delle virtù civili e dei valori morali indicherà sempre la strada, e qualcuno, prima o poi, alzerà di nuovo gli occhi al cielo tenendo bene i piedi in terra e le mani pronte al lavoro, ma la schiena dritta.

Il Manifesto degli Insegnanti (ed io) tra progetto, utopia e realtà – di Mariaserena


Scrivo sempre quello che penso e non di rado mi chiedo perché cedo alla tentazione di pubblicarlo su web visto che scrivere solo per me stessa è una gratificazione assoluta. Dev’essere stato il mio lavoro di insegnante-che-racconta che mi ha geneticamente modificata. E’ una sorta di sindrome espansiva (il nome l’ho inventato adesso, sul momento) che ho spesso osservato dentro di me, e l’ho anche scritto in una pagina de La mia classe non è.doc.

“Così mi capita di attraversare i quartieri di Roma e di vedere una strada, un ponte o un palazzo antico, o di leggere un libro o un giornale o visitare una mostra o di riflettere per cercare di capire quello che accade nel mondo e di accorgermi che sto già cominciando, in automatico, a spiegarlo silenziosamente, dentro di me,  a loro.”

L’insegnante che racconta, ed in questo caso chi scrive, non nasconde se stesso, anzi usa ogni strategia per rendere la sua narrazione più attraente. Ma nel suo lavoro sa che non ci sono due situazioni narrative uguali come non ci sono classi, ragazzi o lezioni uguali; lo scrisse anche Goethe: non ci sono ripetizioni per il cuore, ma solo per la mente.
Chi insegna raccontando ha costruito la sua figura professionale con la volontà e la mente (gli studi, i titoli, l’aggiornamento et similia) ma poi ha buttato il suo cuore nella classe e non poteva far altro che questo.

Ho partecipato alla costruzione del Manifesto degli insegnanti con il cuore; tanto ne misi che, a un certo punto mi si era come ingolfato e se non fosse intervenuto Andreas Formiconi che in una indimenticabile domenica pomeriggio gettò, con altrettanto e più cuore e lucida mente, una bellissima sua pagina tra i post del Ning LSCF dicendo che quella era una sua bozza, credo che non avrei trovato il filo del discorso. Naturalmente in tanti hanno valentemente partecipato fino a creare la versione definitiva, ma come dice la canzone per fare un albero ci vuole un seme, e quel seme fu gettato così.
Fu dunque, per chi scrive, un’impresa tra la coltivazione e il cantiere navale. Il cantiere, preparato da
Gianni Marconato
, era pronto ed armato di volontà perciò il Manifesto nacque e fu ben allevato dal nocchiero-giardiniere de LSCF Gianni.

Dopo più di un anno rileggo ancora una volta il testo e mi chiedo quanti altri semi possa aver generato. L’utopia ha ispirato un testo alto e denso che merita di esser tradotto in prassi: è accaduto oppure ne abbiamo fatto solo un fiore all’occhiello per migliore l’immagine? La realtà quotidiana del lavoro dell’insegnante che ha collaborato a scrivere, che ha condiviso e linkato, che ha diffuso volenterosamente il Manifesto ne è stata scalfita, modificata, ispirata o illuminata?
Ma quest’oggi non è giorno di risposte.
Chi scrive queste righe sta raccontando e non emetterà giudizi.

Chi scrive adesso alza spesso lo sguardo dallo schermo per guarda dalla finestra le foglie che bevono avidamente la pioggia prima di cedere al ciclo autunnale che le renderà humus vitale per l’albero stesso nato (quanto tempo fa?) sempre da un semplice ed umile seme.
Chi scrive immagina la storia del seme, e prova a raccontarla a modo suo. Un seme, in fondo, è uno tra i tanti suoi simili e per vivere deve essere buona, fortunata e ben curata semente. Un seme, da sempre, è solo un’opportunità, è un’ipotesi di vita. Anche il nostro Manifesto è un seme; chi ha partecipato alla sua nascita sa di aver fatto bene e sa anche di non essere responsabile di tutte le vicende che quel seme incontrerà e non può fare a meno di chiedersi quale è stata o sarà la sua storia.

Un albero fiorì di bianchi grappoli profumati, era una vigorosa acacia. Dopo qualche tempo il vento fece cadere ai suoi piedi dei baccelli sottili pieni di semi. Alcuni passanti li videro. Un vecchio li frugò col suo bastone, ne raccolse faticosamente una manciata e pensò che avrebbe provato a darli come becchime al fringuello che gli teneva compagnia dalla gabbietta appesa sul balcone. Una frettolosa signora li pestò, controllò che non le avessero impolverato le scarpe e se ne andò per i fatti suoi. Un artista in cerca di fama li guardò incuriosito, ma vide che non avrebbero aumentato la sua fama e volse lo sguardo in cerca di vantaggiose o più facili opportunità. Un grosso calabrone ronzante passò a veloce volo radente in cerca di prede, per sfuggirlo una donna che arrivava si chinò e vide i baccelli ormai secchi, sorrise li raccolse in un kleenex e pensò che li avrebbe portati al suo bambino che stava per uscire di scuola e già pensava che si sarebbe messo a giocare con il nintendo.
Il ragazzino arricciò il naso vedendoli, avrebbe preferito il solito ovetto kinder, ma poi la mamma gli spiegò che dentro quelle scorze secche c’erano semi e che i semi si potevano mettere in terra per fa nascere una pianta. Lo seminarono in un vaso, e non nacque nulla. Ma ormai il bambino aveva elaborato una sua teoria: se dai semi nasce una pianta (di questo era sicuro perché aveva chiesto anche alla maestra e a internet) ma non era accaduto, allora era la mamma che doveva aver sbagliato qualcosa. E lui continuò ad occuparsene, provando e riprovando, fino a riuscirci.

Dai semi può nascere o non nascere una pianta, ma quasi sempre se ne sprigiona una curiosità, un’ipotesi, una domanda. Ecco perché non bisogna smettere di curarsene, di raccoglierli, di diffonderli. Ecco perché il rito dell’agricoltore, come quello del navigante consiste nel ripetere azioni e rotte sicure conosciute, ma per scoprirne di nuove.

5. Non potendo trasmettere ai miei studenti la verità, mi adoprerò affinché vivano cercandola.(dal Manifesto degli Insegnanti)

L’impegno a cercare la verità è il più arduo, insieme a quello dell’impegno per il bene comune, che si possa trasmettere ai nostri ragazzi; ecco perché questo è il pezzo di Manifesto che prediligo ecco la vera sementa.

E naturalmente lo racconto a modo mio.