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Il Manifesto degli Insegnanti (ed io) tra progetto, utopia e realtà – di Mariaserena


Scrivo sempre quello che penso e non di rado mi chiedo perché cedo alla tentazione di pubblicarlo su web visto che scrivere solo per me stessa è una gratificazione assoluta. Dev’essere stato il mio lavoro di insegnante-che-racconta che mi ha geneticamente modificata. E’ una sorta di sindrome espansiva (il nome l’ho inventato adesso, sul momento) che ho spesso osservato dentro di me, e l’ho anche scritto in una pagina de La mia classe non è.doc.

“Così mi capita di attraversare i quartieri di Roma e di vedere una strada, un ponte o un palazzo antico, o di leggere un libro o un giornale o visitare una mostra o di riflettere per cercare di capire quello che accade nel mondo e di accorgermi che sto già cominciando, in automatico, a spiegarlo silenziosamente, dentro di me,  a loro.”

L’insegnante che racconta, ed in questo caso chi scrive, non nasconde se stesso, anzi usa ogni strategia per rendere la sua narrazione più attraente. Ma nel suo lavoro sa che non ci sono due situazioni narrative uguali come non ci sono classi, ragazzi o lezioni uguali; lo scrisse anche Goethe: non ci sono ripetizioni per il cuore, ma solo per la mente.
Chi insegna raccontando ha costruito la sua figura professionale con la volontà e la mente (gli studi, i titoli, l’aggiornamento et similia) ma poi ha buttato il suo cuore nella classe e non poteva far altro che questo.

Ho partecipato alla costruzione del Manifesto degli insegnanti con il cuore; tanto ne misi che, a un certo punto mi si era come ingolfato e se non fosse intervenuto Andreas Formiconi che in una indimenticabile domenica pomeriggio gettò, con altrettanto e più cuore e lucida mente, una bellissima sua pagina tra i post del Ning LSCF dicendo che quella era una sua bozza, credo che non avrei trovato il filo del discorso. Naturalmente in tanti hanno valentemente partecipato fino a creare la versione definitiva, ma come dice la canzone per fare un albero ci vuole un seme, e quel seme fu gettato così.
Fu dunque, per chi scrive, un’impresa tra la coltivazione e il cantiere navale. Il cantiere, preparato da
Gianni Marconato
, era pronto ed armato di volontà perciò il Manifesto nacque e fu ben allevato dal nocchiero-giardiniere de LSCF Gianni.

Dopo più di un anno rileggo ancora una volta il testo e mi chiedo quanti altri semi possa aver generato. L’utopia ha ispirato un testo alto e denso che merita di esser tradotto in prassi: è accaduto oppure ne abbiamo fatto solo un fiore all’occhiello per migliore l’immagine? La realtà quotidiana del lavoro dell’insegnante che ha collaborato a scrivere, che ha condiviso e linkato, che ha diffuso volenterosamente il Manifesto ne è stata scalfita, modificata, ispirata o illuminata?
Ma quest’oggi non è giorno di risposte.
Chi scrive queste righe sta raccontando e non emetterà giudizi.

Chi scrive adesso alza spesso lo sguardo dallo schermo per guarda dalla finestra le foglie che bevono avidamente la pioggia prima di cedere al ciclo autunnale che le renderà humus vitale per l’albero stesso nato (quanto tempo fa?) sempre da un semplice ed umile seme.
Chi scrive immagina la storia del seme, e prova a raccontarla a modo suo. Un seme, in fondo, è uno tra i tanti suoi simili e per vivere deve essere buona, fortunata e ben curata semente. Un seme, da sempre, è solo un’opportunità, è un’ipotesi di vita. Anche il nostro Manifesto è un seme; chi ha partecipato alla sua nascita sa di aver fatto bene e sa anche di non essere responsabile di tutte le vicende che quel seme incontrerà e non può fare a meno di chiedersi quale è stata o sarà la sua storia.

Un albero fiorì di bianchi grappoli profumati, era una vigorosa acacia. Dopo qualche tempo il vento fece cadere ai suoi piedi dei baccelli sottili pieni di semi. Alcuni passanti li videro. Un vecchio li frugò col suo bastone, ne raccolse faticosamente una manciata e pensò che avrebbe provato a darli come becchime al fringuello che gli teneva compagnia dalla gabbietta appesa sul balcone. Una frettolosa signora li pestò, controllò che non le avessero impolverato le scarpe e se ne andò per i fatti suoi. Un artista in cerca di fama li guardò incuriosito, ma vide che non avrebbero aumentato la sua fama e volse lo sguardo in cerca di vantaggiose o più facili opportunità. Un grosso calabrone ronzante passò a veloce volo radente in cerca di prede, per sfuggirlo una donna che arrivava si chinò e vide i baccelli ormai secchi, sorrise li raccolse in un kleenex e pensò che li avrebbe portati al suo bambino che stava per uscire di scuola e già pensava che si sarebbe messo a giocare con il nintendo.
Il ragazzino arricciò il naso vedendoli, avrebbe preferito il solito ovetto kinder, ma poi la mamma gli spiegò che dentro quelle scorze secche c’erano semi e che i semi si potevano mettere in terra per fa nascere una pianta. Lo seminarono in un vaso, e non nacque nulla. Ma ormai il bambino aveva elaborato una sua teoria: se dai semi nasce una pianta (di questo era sicuro perché aveva chiesto anche alla maestra e a internet) ma non era accaduto, allora era la mamma che doveva aver sbagliato qualcosa. E lui continuò ad occuparsene, provando e riprovando, fino a riuscirci.

Dai semi può nascere o non nascere una pianta, ma quasi sempre se ne sprigiona una curiosità, un’ipotesi, una domanda. Ecco perché non bisogna smettere di curarsene, di raccoglierli, di diffonderli. Ecco perché il rito dell’agricoltore, come quello del navigante consiste nel ripetere azioni e rotte sicure conosciute, ma per scoprirne di nuove.

5. Non potendo trasmettere ai miei studenti la verità, mi adoprerò affinché vivano cercandola.(dal Manifesto degli Insegnanti)

L’impegno a cercare la verità è il più arduo, insieme a quello dell’impegno per il bene comune, che si possa trasmettere ai nostri ragazzi; ecco perché questo è il pezzo di Manifesto che prediligo ecco la vera sementa.

E naturalmente lo racconto a modo mio.

  

Parole in gioco e allo specchio – di Mariaserena Peterlin

Scrivere è dare un senso alle parole:
è come cercar ombre nello specchio.
 
 
Scrivere è dare un senso alle parole
giocando a "io sono il re e tu sei il cavallo",
fingendosi un eroe, un navigatore
un principe, un serpente oppure un gallo.
Scrivere è immaginare di capire
che il recto e il verso sono disuguali
ed ancora è aver voglia di scoprire
la fine, sempre prima dei finali.
Immaginando con le tue parole
componi frasi come note in fila:
trovane i suoni e troverai anche il senso
non uno, ma due…centottantamila.
 
 
Scrivere è dare un senso alle parole:
è come cercar ombre nello specchio,
rivoltarle e piegarle da ogni lato
bagnandole di lacrime e di pioggia.
E’ poi asciugarle con polvere solare
per scoprire le tracce che hai nel cuore,
ma trovi gli echi che non ricordavi.
Le togli dalle labbra e sulla carta
riscopri il suono delle più dimesse.
Immagina e vedrai, camere oscure
dove il colore audaci scherzi gioca.
Scrivi parole, senza aver paura

NARRAZIONE – Raccontare ossia spalancare. di Mariaserena Peterlin

Perché è tanto difficile scrivere e scrivere bene? ( disegno di Nadagemini  )

Si racconta prima a se stessi, quando ci si ascolta. Si inizia quando ci si guarda dentro cercando quello che siamo vuoto per pieno. Vogliamo capire anche quello che non siamo, ci interroghiamo su come dovremmo essere.
 
Torniamo, per un poco, ai pensieri dell’anima bambina che vuole capire, che scruta, che individua i rapporti. E’ allora che nascono i primi dubbi su come siamo e su come gli altri ci vogliono. Il bambino assorbe, cerca di individuare una strategia di esistenza/resistenza al mondo esterno. Molto presto gli arrivano i no e i sì dei genitori, li vede sorridere o disapprovare. Ma lui vuole essere amato e quindi inizia a ritagliare quei contorni e sbavature che potrebbero non farlo amare abbastanza. Per poterlo fare immagazzina i messaggi, dà forma ad un’idea di sé, prende quella forma e la sovrappone a come si percepisce. Ragiona e si racconta quell’esperienza. Tagliare il troppo e colmare il poco non è facile e può essere anche doloroso. Allora si aiuta raccontandosi quanto amore in più potrà ricevere, quanti sorrisi e quanti sì potrà ottenere, quali aspettative in sarà capace di colmare. Rassicurato da questo inizia a ritagliare piano piano: non si dice, non si fa, non si deve nemmeno pensare; e non lo racconterà più.
 
Perché è tanto difficile scrivere e scrivere bene?
Perché a scuola il tema è un supplizio e la composizione scritta una sciagura che viene seconda solo (per molti) al compito di matematica?
Non è difficile da capire. Gli alunni, resi edotti dall’esperienza in famiglia, sanno già che l’adulto può approvare/disapprovare e a scuola ciò diventa addirittura giudizio o si decodifica con un voto che a sua volta meriterà gratifiche o reprimente famigliari.
Non è una bella prospettiva.
Non è nemmeno una sfida generosa.
Tantomeno è corretto chiedere a chi scrive di “esprimersi” o di dire la propria opinione quando la matita rossa-blu incombe sul foglio, la stanza ha le finestre chiuse e dal mondo interiore ed esterno non filtrano che fiochi rumori.

Storia di ETTORE : Segnali di vita per il cambiamento – di Mariaserena Peterlin

Dedicato a tutti quelli che pensano che non si impara solo ascoltando.

Sfoglio, a volte, gli album con le foto del tempo già vissuto.

Ad aprirli ci vuole la frazione di secondo, ma poi è come entrare nella macchina del tempo e volerci rimanere.

Guardo le immagini e mi arrivano pensieri, come una musica con parole a lungo sedimentate che continuano a parlare di cambiamento. Una canzone.

Il tempo cambia molte cose nella vita

il senso le amicizie le opinioni

che voglia di cambiare che c’è in me

si sente il bisogno di una propria evoluzione

sganciata dalle regole comuni

da questa falsa personalità.

L’effetto è quello di guardarsi allo specchio in modo diverso e riconoscersi in quell’immagine, o forma, ritrovando se stessi come si è dentro, e non come qualcosa da esporre agli altri.

Una nostra comune immagine riflessa (dove, come diceva un vecchio film, non c’è mai la verità perché quel che è destra è sinistra e quel che è sinistra è destra) non sempre ci appaga.

Invece, se scrutassimo nello specchio degli occhi dell’animo, io credo che quello che vediamo potrebbe piacerci.

No, non si tratta di rimpianti o nostalgia.

Si tratta di voler bene ciò che siamo e, in buona coscienza, ciò che siamo stati.

Per questo non cerco mai nessun surrogato del paradiso, per questo non voglio dimenticare nulla.

Il tempo, è vero, cancella e cambia molte cose, ma solo ciò che non abbiamo davvero vissuto a cuore aperto, mentre ci fa anche amare di più tutto ciò che, come naufraghi senza tempesta, vogliamo ostinatamente portare con noi.

Guardo, adesso, immagini scattare negli anni settanta, lo stesso periodo in cui sono nate le mie figlie, tuttavia io le vedo e sento simili a quelle della mia infanzia; mi convinco che non sarebbero troppo diverse e penso che sarebbe bello se in tanti si cominciasse ad aprire i nostri cassetti per mettere in circolazione tutte le vecchie foto riposte tra ricordi e sentimenti.

Ci sono stati anni in cui tutto cambiava e il modo progrediva velocemente, ma il fondo dell’animo delle persone conservava un patrimonio di memorie e cultura, sentimenti e tradizioni.

Ci sono stati anni in cui non siamo stati anime invase e sopraffatte o indifferenti.

In quegli anni lo specchio era un oggetto ma era anche vanitas  e un ragazzino si vestiva e metteva in ordine perché e come le mamme volevano fosse in ordine, e non come lo voleva la nike o un’altra marca qualsiasi e televisivamente permeante.

E certamente non ci si vestiva o metteva in ordine per videizzarsi col telefonino.

No, ripeto: Non si tratta di rimpianti o nostalgia.

Si tratta di amare quello che siamo e, in buona coscienza, ciò che siamo stati e siamo rimasti senza tradimenti.

Si tratta di lasciar parlare immagini da cui c’è ancora tanto da imparare su noi stessi.

E’ con questo stato d’animo che mi sono ritrovata a guardar quelle ed altre immagini e ho chiesto di conoscere le storie che racchiudevano. Alcune me le hanno raccontate.

Un racconto o una narrazione sono come un filo che si svolge meticolosamente da un gomitolo ben ordinato per diventare trama e tessuto artigianale o una maglia lavorata punto per punto.

Ognuno ha una mano diversa e il tessuto o la maglia che sto costruendo io non potrà essere uguale ad un’altra.

Ma in questo modo abbiamo già spezzato, senza rumore e definitivamente, un anello della catena dell’omologazione che ci ha portato dal mondo del sentimento e della ragione a quello della vanitas e del vuoto, che prima rifuggivamo.

La storia che mi racconta, ad esempio un insegnante di una scuola sportiva è uno di quei fili di gomitolo che diventa una narrazione o tessuto. Sarà uguale e diversa? Non nella sostanza.

Parla di Ettore, undici anni, che partecipa, nel dicembre del 1976  alla Corsa delle tre contrade organizzata dalla Scuola Sportiva DEPA di Palermo. Un dicembre palermitano mite, commenta il suo insegnante. 

Nella foto, bellissima, si vedono tre ragazzini ed Ettore è il più alto. ettore Ha un fisico asciutto e non sorride, ha i capelli un po’ arruffati e sembra affannato a differenza dei suoi compagni che sembrano tranquilli  pur se presi dalla situazione.

Il filo del gomitolo si dipana, e l’insegnante, perché questa storia dobbiamo narrarla insieme, mi racconta.

Ettore è nato in una famiglia che per tradizione ha lavorato con gli animali. Negli anni sessanta e settanta in seguito alla grande cementificazione del nostro quartiere che si estende dalle falde del Monte Pellegrino sino al mare, molti dei gruppi familiari che vivevano di allevamento del bestiame, continuarono questo lavoro non più in zone adibite a pascolo ma in stalla. Ettore ha aiutato la famiglia in questa fase. Lo ha fatto abbeverando le mucche, dando loro il fieno ed altri vegetali, aiutando il padre a trasportare l’erba raccolta alle pendici del monte, pulendo la stalla, distribuendo il latte munto presso le famiglie che lo richiedevano.”

Dunque quel bambino quindi frequenta la scuola elementare e segue le lezioni; per lui sedersi al banco è come tirare un sospiro di sollievo e riposare il corpo per dare aria alla mente.

Nei periodi scolastici Ettore doveva svolgere parte di questi lavori durante la giornata, cercando di seguire anche le lezioni e di fare anche i compiti.”

Ettore cresceva sano e robusto e, come è naturale che sia, provava un po’ d’invidia per gli altri ragazzini che non avevano di queste incombenze di lavoro.”

Afferro quel filo e vedo Ettore correre verso la scuola sportiva e materializzarsi al fianco dei suoi insegnanti. Lo vedo sbrigarsi a finire con il bestiame, incombenza faticosa e che richiede accuratezza e precisione, per non perdere la possibilità di far parte di un gruppo e di seguire i suoi maestri.

Per lui questi contatti sono ossigeno ed entrare nel campetto per presentarsi ai maestri è come spiccare finalmente il volo.

Parallelamente penso che ragionare sulla sua condizione di bambino che aiuta la famiglia nel lavoro quotidiano e forse lasciarsi andare a giudizi anacronistici e moralistici parlando di lavoro minorile non abbia, oggi, nessun senso. La nostra presunzione moralista, dopotutto, si ferma sulla soglia di casa nostra e comunque lasciamo che il mondo vada come va.

La condizione della vita quotidiana di Ettore era quella e non per scelta o accanimento, ma per ragioni storiche che dobbiamo accettare come tali.

L’infanzia di oggi appare più tutelata ed ha garanzie formalmente diverse. Ma sulla probabilità che sia realmente più felice e fiduciosa sul senso dell’esistenza o che cresca genericamente meglio, abbiamo semplicemente staccato il tagliando di una scommessa che è tutta da verificare.

Ora capisco quell’aria spettinata e lo sguardo che interroga e non dà nulla per scontato.

Ogni attimo di scuola che per gli altri è un impegno per lui è invece un premio.

Alla DEPA “ mi dice ancora l’insegnante,“assieme alle attività proprie dei corsi della Scuola Sportiva abbiamo proposto gare di corsa, meeting di atletica leggera, tornei di calcio, etc con la partecipazione aperta a tutti i ragazzini del quartiere. Ettore, grazie a queste attività che hanno avuto sempre una valenza educativa, ha trovato l’ambito dove essere alla pari con gli altri ragazzini. Nei suoi periodi “liberi” ce lo ritrovavamo accanto sempre pronto ad accogliere il nostro assenso ad includersi nelle attività dei corsi.”

Mi spiego anche le spalle e del ragazzo, nella foto leggermente curve, come se  stesse per assumere la posizione di partenza e al tempo stesso si rilassasse in attesa dell’impegno di una competizione attesa e anelata. Mi spiego lo sguardo consapevole, da adulto.

Le parole del suo insegnante documentano i fatti.

“Ettore quando ha partecipato alla gara aveva 11 anni e frequentava la quinta elementare. La distanza della corsa era di circa 2 Km ed Ettore si è classificato tra i primi. Il percorso della gara lo abbiamo modificato per farla passare davanti la stalla di Ettore.

Lui aspetta dunque solo il via per lasciar correre gambe e cuore, per slanciarsi a perdifiato gareggiando lungo le strade delle tre contrade, per confrontarsi con i compagni e magari accelerare al massimo negli istanti in cui passa davanti alla stalla della famiglia orgogliosa della sua partecipazione.

Un passero, con il cuore grande, da uomo.

Dopo la corsa tornerà a casa felice e continuerà il lavoro, finirà i compiti e si preparerà al riposo con la mente rivolta al suo domani che, lui spera, sarà diverso da quello di tutti gli altri.

Segnali di vita nei cortili

e nelle case all’imbrunire

…..

“Inutile dire che noi insegnanti della DEPA tifavamo in modo un po’ velato per la vittoria di Ettore.”

Tifiamo anche noi, seppure a distanza perché ora il tempo si è annullato e negli occhi di tutti c’è solo il numero 34 sulla maglia di Ettore, quel ragazzino asciutto che “dialogava con gli sguardi, con il sorriso maturo e intelligente, con la sua presenza sempre composta e che esprimeva fiducia, dialogava con la sua ricca e forte motricità”.

La mattina della Corsa delle tre contrade Ettore svegliandosi non poteva sapere che dopo tanti anni si sarebbe ancora parlato della sua partecipazione alla gara. Ma anche se lo avesse saputo avrebbe probabilmente scrollato le spalle e pensato solo che si doveva sbrigare il più possibile per anticipare il lavoro.

Ettore, un nome di famiglia, ma anche dell’eroe omerico che rappresenta insieme il mito della pietas famigliare e del coraggio ardito; Ettore 11 anni e tanti sogni a lui stesso indistinti.

Ma l’impresa lo attende e non c’era tempo per pensare perchè uno dei suoi sogni è ora a portata di mano.

Dunque si alza dal letto alla svelta peressere puntuale, alle nove nsieme agli altri ragazzi. Si veste: scarpe, calzoni lunghi, una maglietta su cui era già stato attaccato quel numero che è solo suo.

Non era tempo di divise quello, né di maglie con lo sponsor o di marche con grandi firme: per tutti bastava la solita semplice maglietta e la determinazione ad esserci. I ragazzi di quegli anni sono ancora solo ragazzi, simili a quelli della via Pál.

Non posso impedirmi di pensare ad una qualsiasi corsa di ragazzini oggi: denari e tempo da spendere per scegliere il look, la famiglia mobilitata, una colazione da campione del mondo in trasferta di lusso, le videocamere e telefonini in azione, parenti disposti lungo il percorso (in alcuni casi predisposti alla competizione o ad un tifo esagerato essi stessi).

E poi?

Poi nulla, si spengono le luci e molti non si chiedono

“ti accorgi di come vola bassa la mia mente?

E colpa dei pensieri associativi

se non riesco a stare adesso qui.”

Corri dunque Ettore!

Siamo stati, e vogliamo ancora essere, simili a te; non certo migliori.

Corri ancora Ettore perché la tua corsa è passione per la vita e le nostre anime non temeranno di specchiarsi nel vuoto.

(Fine anni cinquanta, ero ragazzina, e giocavo a campana o correvo dietro a un palla. Ma prima di poter andare a giocare dovevo lavare i piatti e fare tutti i compiti. Appena era possibile scendevo subito sotto casa dove si giocava tutti all’Iliade.

Sì perchè in prima media si studiava Omero, e nei cortili e nei campi della periferia della città dove vivevo allora noi passavamo i pomeriggi formando bande di Achei e Troiani. Io ero un guerriero acheo e avrei voluto essere Achille, ma quel ruolo spettava a Sergio, un ragazzino che si era procurato uno scudo di cartone (fatto con un piatto di quelli su cui appoggiare le torte di pasticceria) con relativa spada. Battaglie, scontri, duelli: corse e sassate. Il ruolo di Ettore era, ovviamente, di un ragazzino  della banda opposta. Oggi vorrei essere nella sua.)

Segnali di vita nel cortile

e negli spazi all’imbrunire

le luci fanno ricordare

le meccaniche celesti.

FINE DELLA STORIA