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La SCUOLA non è solo WEB: un post di FERMINA DAZA

Fermina Daza (una bravissima docente e formatrice che si firma con un nickname per tutelare la privacy dei suoi studenti) ha pubblicato ieri un post fondamentale sul Blog Notecellulari, gemello a questo, ma che vive sulla piattaforma bogspot.com
Il post si intitola: 
IMPANARE E FRIGGERE e merita tutta l'attenzione non soltanto dei docenti, che forse conoscono bene l'argomento, ma delle famiglie, della classe politica (non si sa mai) e soprattutto dei cosiddetti addetti ai lavori che, in quanto esperti, giornalisti e affini tanto parlano di scuola, di scuola e tecnologie, di scuola e rinnovamento ma… poco cucinano una scuola vera. Vera, sostanziosa, concreta e…. di quelle con cui sporcarsi e, casomai, ungersi le mani.
Insomma anche l'immagine che accompagna il testo parla chiaro:


«Una riflessione “a caldo” e, questa volta, fuor di metafora.»
Aggiungo al post anche una mia riflessione e, premetto che non sarò affabulante. Leggo, infatti, questo post e mi vengono in mente, per contrasto, quei commenti che girano sui social network nei gruppi-insegnanti. In particolare in quei "gruppi chiusi" in cui "si sta così bene tra di noi, abbiamo già tante critiche dal fuori".
Leggo questo post e vedo come un intervento a cuore aperto.
La metafora della cucina, la foto esplicita: il CONCRETO.
E mentre la scuola, in sè detta, sembra quasi, quando se ne parla in chat, qualcosa di genericamente funzionale al docente, qui, nelle parole di Fermina Daza, è sangue e calore che ci invadono tutti.
L'aula, i ragazzi, i bambini e le bambine, quello che loro portano a scuola dalla famiglia e dal mondo in cui vivono.
Quello che portano dentro di sé e verso di noi.
Tutto questo non è né oleografia né qualcosa di cui liberarsi una volta finito l'orario.
Tutto questo è qualcosa di cui occuparsi come persone.
E come persone di questo nostro tempo siamo circondati da strumenti.
Gli strumenti non sono soluzioni.
Lapalisse? E allora perché non dirlo?
Prendiamo la tecnologia informatica: ha ragione Fermina Daza, sappiamo che c'è, sappiamo che la usiamo. Non per questo possiamo concludere che risolverà i nostri problemi.
Ascoltate un dinosauro come me. Nella mia classe c'era la radio: un altoparlante che trasmetteva "la radio per le scuole." Ma la maestra ci leggeva i libri e parlavamo, parlavamo, parlavamo. Nelle mie aule di docente portavo i media elettrici: radio, tv, registratori, perfino un impianto stereo. Un percento di uso di media (e quante volte me lo chiedevano per "alleggerire" la lezione!
Poi abbiamo usato il pc, internet.
E "loro", i ragazzi, mentre il/la prof o il/la maestro/a si impegnano nell'uso del digitale…. digitano lo smartphone. Perché negarlo.
Chi ha seguito da sempre lo sviluppo del processo d'uso delle tecnologie NELLa didattica lo sa. 
Non è vero che nihil sub sole novi. Anzi! Abbiamo nuovi problemi che non si pascono di vecchie soluzioni. Ma, ragionandoci sopra, non rischiamo che la soluzione digitale non sia altro che un vecchio, obsoleto schema applicativo mentre il problema madre resta, figlia altri problemi e i nostri bambini e adolescenti sono sempre più soli, problemantici e carenti di educazione?
Torno al punto: la scuola non può chiudersi in se stessa per star bene con se stessa. Se fa così non è scuola, è corporazione.
I bravi insegnanti lo sanno.
Fermina Daza lo sa e persone come lei lo sanno. Ascoltiamoli.
La scuola si apra e si ponga su un piano di dialogo serio. 
Altrimenti chiudiamola, ma chiudiamola sul serio.
Grazie Fermina Daza: tu apri un processo amaro e faticoso, ma è quello della strada nuova.
A impanare e friggere sono buoni tutti. Ma abbiamo bisogno d'aria davvero fresca e nuova e non di aria fritta e rifritta. 

Note elettriche di scuola – di Mariaserena Peterlin

(disegno di Nadagemini)
Nello scrivere penso al post dell’amica Fermina Daza sulla “Didattica ortodossa” e ho in mente anche tante considerazione che abbiamo fatto insieme e che un giorno insieme, spero, scriveremo.

Questo scritto, non è un tentativo di narrazione letteraria. Lo dichiaro subito in omaggio alla evidenza che altro è dire, altro è commentare, parlare di ricordi, chiosare, annotare, altro è divertirsi a ciarlare, scambiar parole ecc e altro è narrare per far opera letteraria.
 
Meglio non sottovalutare le parole, specialmente in campo narratologico, perché se ne potrebbe uscire fulminati.
Forse riuscirò a spiegare come e perché.
Alcune parti di questo scritto sono state prese e riviste da una mia raccolta di cose vere e di scuola che ha preso il titolo “La (mia) classe non è doc”.
Altre parti di questo scritto sono considerazioni di oggi.
Le prime sono scritte in corsivo, le altre a caratteri normali. L’ordine segue solo una mia logica di associazione mentale, e non.
 
3. Storie e lotte di classi
Le iscrizioni alla scuola, dopo elaborate e attente pratiche di orientamento e ri-orientamento, sono messe in atto in collaborazione con le Scuole di provenienza degli studenti.
Sull’attribuzione degli studenti alle sezioni e sulla distribuzione numero dei ragazzi iscritti si aprono spesso, tra gli insegnanti, danze e contraddanze non proprio armoniose.
Accade, infatti, che la formazione delle classi sia solo apparentemente casuale o stabilita da criteri d’equilibrio.
Pochi sono gli insegnanti che, per candido senso democratico, per stoica indifferenza alla comune sorte, o per altri indecifrabili motivi continuano ad accettare le classi così come capitano; la gran parte, invece, è costituita da più avveduti prof che si organizzano e manovrano, fin dall’estate, con la perizia degli addetti ai lavori della diplomazia mediorientale.
 
Ma in fondo cos’è mai una classe?
 
Mi è sempre piaciuta la definizione che Maria Corti ne ha dato ne “Il ballo dei sapienti” un libro che narra di scuola, non abbastanza conosciuto e di cui la scrittrice stessa sospese le stampe perché si era posta “un problema di specializzazione o invecchiamento o fossilizzazione del linguaggio, che troppo da vicino connota una realtà sociale e storica di fronte ai mutamenti rapidi del reale” Gabriella Palli Baroni Seduzione intellettuale e creatività: Maria Corti scrittore in cattedra 
 
Maria Corti scrive: “Una classe era una classe, non trentadue ragazzi, una fitta rete di correnti alternate tesa tra trentadue ragazzi.”
Certo si può dirne anche di più, ma forse sarebbe assai più saggio non dirne altro, specialmente se ci si avventura a narrare, e prendere ad esempio la Corti, geniale autrice, per limitarsi a piccole note a margine di un Consiglio di classe.
Dipende dai punti di vista.
Per alcuni una classe è un luogo (sociale, fisico ecc) in cui si passano ore di lavoro insegnando a ragazze e ragazzi aggregati per età. È anche un qualcosa da dimenticare al più presto tornando alle proprie vite quotidiane.
Ma c’è anche chi considera la situazione in modo diverso. Torniamo dunque a Maria Corti. La classe è elettricità perché la classe, innanzitutto, sono gli studenti, ossia i ragazzi.
Loro, considerati individualmente, sono persone di cui prendersi cura dialogando, ricevendo e trasmettendo input e saperi.
La classe, però, non è una semplice somma di un tot ragazzi e ragazze, ma è uno speciale mosaico attraversato (appunto) da un’elettricità scaturita da un complesso aggregarsi di alunni portatori di varianti socio-culturali e affettive.
Ma qui non si narra, qui si fanno note didascaliche e memorialistiche; perciò vado a precisare.
Alcune di queste varianti, essendo impossibile esser certi di definirle tutte, sono: la percentuale di maschi-femmine, la provenienza da scuole diverse, l’appartenenza a quartieri centrali o periferie, l’aver vissuto in realtà sociali le più diverse, la percentuale di studenti con diagnosi di difficoltà cognitive o di altro tipo e di quelli altrettanto problematici, ma dei quali le famiglie non vogliono rivelare (e possono farlo) la situazione reale.
Il mix di queste varianti genera classi tutte diverse (e diversamente elettriche). Le benevolmente cosiddette situazioni difficili, già segnalate nelle schede scolastiche fin dalle elementari (ma che non sono a disposizione di tutti) si palesano infatti come tante terminazioni nervose scoperte.
E sarebbe davvero illogico farne ricadere il peso sui nostri ragazzi.
Tutti questi elementi si combinano nell’insieme classe e possono rendere un anno scolastico vivibile o massacrante non solo al docente ma anche agli studenti medesimi.
Tra luglio e agosto la scuola è in vacanza ed appare spopolata, ma non lo è poiché spesso vi opera attivamente un esiguo e sagace team di prof, funzionali e spigliati, che organizza. Per sé va a creare  ben allevate classettine di alunnetti di buona famiglia le cui iscrizioni sono stare, fin dalle scuole di provenienza, scrupolosamente pilotate verso predeterminate sezioni. L’operazione è condotta da mani assolutamente vellutate nel pescare, dai faldoni, i nomi giusti che finiscono nell’elenco voluto.
Ma quali sono le conseguenze, sul lavoro docente e sulla vita di classe, di questo vellutato siparietto estivo?
Non esiste uno strumento che misuri scientificamente quanta maggior fatica sia affrontare, ad esempio, trentuno adolescenti sedicenni maschi portatori sani di neuroni disinibiti e ormoni arrembanti piuttosto che diciotto figli/e di famiglia, divisi in uguale numero di  maschi e femmine sussurranti come un coro da parrocchia, per di più inaspettatamente abituati a mangiare con le posate.
Tuttavia un osservatore, pur non maliziosamente meticoloso, potrebbe farsene un’idea  anche solo dando un’occhiata alle fisionomie di docenti che escono da aule diverse, e percorrono corridoi separati, al termine della mattinata scolastica.
Da un lato lo sfacelo di stremati consumatori di antispastici, di valeriane e ansiolitici, dall’altra le guancine fardate e le boccucce appena velate dal persistente baffetto di cappuccino-e-brioche, il setoso trench annodato in vita e bordato di sinuosa pelliccetta volpina o il giusto tailleur.
Dall’altro lato (i mio ad esempio) le chiome da naufragio, l’occhio sconvolto e la sopravveniente tachicardia, dall’altro il tintinnio dei braccialetti, il fruscio del passo obliquo simil felino e la frangia incollata ad onda perfino cotonata.
Ma anche gli ambienti sono diversi.
Nel loro corridoio le aule sono ben esposte e luminose,  nel nostro abbiamo gli ex-bagni riattati e l’aria opaca di afrori fronteggiati alla meglio con gli appelli all’uso di acqua e sapone (prescritti tre volte al dì) nonché al cambio di maglietta dopo l’educazione fisica. Nella sezione top regna una quiete contegnosa e borghese, ma evidentemente corroborante, nel mio corso, invece, i tumulti scoppiano disinibiti e devono essere sedati da una continua e ostinata presenza didattica: le lezioni  si avvicendano come sulle montagne russe con tanto di apnea che, minuto dopo minuto, incalza le coronarie.
Si corre da una classe all’altra cercando di prevenire gli effetti di qualche frazione di tempo inevitabilmente scoperta dal cambio d’ora. Si entra in classe con almeno cinque minuti di anticipo sulla campanella della prima ora avviandosi, veloci e in preda ad un’inutile ansia, sul pavimento di granito rosso e polveroso dei lunghi corridoi incorniciati dalle finestre di alluminio.
 
Ma come arginare l’elettricità? Certo non a mani nude. Occorrono forse le solite cose: esperienza, sapienza, mestiere? Sì certo, ma è necessario anche mettersi nella condizione mentale e affettiva di voler capire cosa sia quell’elettricità, come accostarla e cosa fare insieme.
Non la fermerete nemmeno con le parole.
 
È l’inizio dell’anno e anche i miei ragazzi festeggiano selvaggiamente il ritorno a scuola. Sono quasi tutti puntuali; agitatissimi si scelgono il banco (opzione che considerano fondamentale per l’andamento dei futuri compiti in classe e non solo).
L’aula è strapiena e ululante e rimbomba tanto che si può sentirne gli scalpitii e i barriti (dolci rumori) fin dal piano sottostante e più in là.
 
Chi, invece, ha congegnato ed ottenuto una buona classettina sorride (e perchè non dovrebbe?). Alcune prof sussurrano avanzando sul decolleté noir che conclude l’articolazione fasciata dal collant velatissimo color gazzella, i prof, sobriamente intellettuali, le accompagnano galanti (come negarlo) accordandosi per un caffè e forse qualche cosa in più, nel pomeriggio, perché no?
 
E la classe? La classe è energia ed ha bisogno di energia, la classe è anche apparenza, bisogna accenderla per riuscire a veder oltre. La classe è davvero elettrica e dunque può illuminarsi o spegnersi, può accumularsi o trasformarsi, può accenderti, riscaldarti o folgorarti: dipende nolto da noi.
Quanto a me la mia classe, amici miei, non era doc e non lo è mai stata.
E quando invece lo fosse stata non sarebbe, elettricamente, toccata a me.

Perchè DIFENDO LA VITA – di Mariaserena Peterlin

 

disegno mari b 0064

Perché difendo la vita?
Si attraversano fasi della vita, o anche solo attimi, in cui ci si rende conto che la nostra presunzione di conoscenza, la nostra propensione a sentenziare sono davvero fuori luogo e che sarebbe importante risalire all’essenziale, a ciò che è davvero indispensabile, a quello che conta e che ci accomuna.
A me è recentemente accaduto di cogliere queste sensazioni, in un attimo, e mi è di nuovo accaduto riflettendo su una lunga fase di vita
In un attimo ho assistito ad una scena   che mi ha violentemente colpito: una giovane mamma, accompagnata da tre bambini, si trovava in fila alla cassa di un supermercato. Tre bambini: due maschi uno piccolo infilato nel carrello della spesa, uno di 8-9 anni e una bambina che avrà avuto cinque-sei anni: bellissima, bionda e con i capelli raccolti in una lunga coda di cavallo. La mia attenzione di un attimo si è fermata sul gesto della mamma che, innervosita da qualcosa che la bimba aveva fatto, l’ha strattonata brutalmente afferrandola per la coda di cavallo. La testa della bambina si è piegata violentemente all’indietro, gli occhi si sono riempiti di lacrime ma la bimba non ha gridato né pianto, né ha reagito. Ha chinato la testa. Contemporaneamente il ragazzino grande, indisturbato, simulava di prendere a cazzotti il piccolino nel carrello, e qualche botta arrivava, ma anche il piccolino rimaneva muto, immobile e chinava la testa senza reagire. Mi sono sentita male; e, come se una lastra di pietra mi avesse colpito improvvisamente nel cuore, non sono riuscita nemmeno, per molti giorni, a raccontare quello che avevo visto. La “mamma” subito dopo la violenza inflitta alla piccola si è messa a cercare solidarietà (e non le è mancata) da una vecchia signora in fila accanto a lei lamentando : “non hai un momento di pace, tutto il giorno così”; e la vecchia, odiosa, ha rincalzato: “Solo chi non lo prova non lo capisce”. Io invece penso di aver capito: entrambe odiavano la vita.
Proprio qualche giorno dopo questo episodio è accaduto che mio padre, molto anziano e sofferente da anni ma dalla famiglia amato e seguito, è stato accompagnato al pronto soccorso per un malore che, anche al medico curante, è apparso subito gravissimo. Al pronto soccorso: ore di attesa, esami sommari (il cui esito risulta dal referto anche contraddittorio) e l’intimazione di portarlo a casa: “Lei si vuole liberare di suo padre” è stata l’accusa del medico a chi si è completamente dedicato per anni e anni alla cura dei genitori. Mio padre è tornato a casa in gravi condizioni, respirando a fatica, impossibilitato a qualsiasi movimento; ma chiudo qui la descrizione penosa. Dopo pochissimi giorni, ricoverato nuovamente d’urgenza, è morto. No, non ci volevamo liberare di lui e nemmeno speravamo che potesse vivere a lungo; ma che gli fosse risparmiata sofferenza e fosse assistito adeguatamente sì.
Ecco perché difendo la vita. La vita dei piccoli e quella degli anziani è simile a quella delle persone, per vario motivo, inabili o impossibilitate a prendersi cura consapevole di se stessi. Ma quella vita è pur sempre un dono, e non può essere delegata alla valutazione della bilancia delle opportunità, delle utilità, degli interessi personali e, diciamolo pure, dell’arbitrio (ragionato o non, equilibrato o isterico, razionale o pregiudiziale) di nessuno.
La vita appartiene alla persona. Quella particolare persona (vecchia o piccola che sia) può darci gioia o preoccupazioni, ma non è cosa nostra né cosa di un medico di guardia o di una vecchia signora in fila al supermercato o di una mamma instabile e nervosa.
Difendo quella vita. La difendo perché in vario modo è minacciata, è fragile, è incompresa; perché ci rappresenta tutti, perché è un diritto.
La difendo perché se noi non rispettiamo una vita (di un bimbo, di una persona fragile o debole, o di un vecchio) spezziamo qualcosa di importante che tutti ci lega e manchiamo di rispetto a tutta la vita, che ci è stata gratuitamente donata e di cui non possiamo pensare di fare quello che ci pare, specialmente quando non è la “nostra”.

TESTI SCOLASTICI: da ADOTTARE, SCARICARE o ELIMINARE? di Mariaserena Peterlin

I testi scolastici e la scuola: quanto sono vivi?

TERZA_a_2003-AQualche anno fa una mia collega mi ha raccontato, molto divertita, di un consiglio di classe in cui era all’Odg un noto argomento “conferma ed adozione libri di testo”. Come tutti sanno su questo argomento possono esprimersi anche i genitori rappresentanti di classe e in quella classe il rappresentante era, di professione, impresario di pompe funebri.Iniziò la discussione e l’impresario  prese arditamente  la parola chiedendo: “Voi che articoli avete?”

Ne seguì uno sghignazzamento mal represso degli insegnanti presenti: l’impresario di pompe funebri fu marchiato per il suo linguaggio, forse un po’ commercial-mortuario,  e, imbarazzato rientrò nei ranghi. I prof , trionfanti e soddisfatti, procedettero senza remore al dovere d’ufficio e la seduta terminò.
D’accordo, i testi scolastici non sono casse da morto (anche se non mancano riesumazioni di capitoli riciclati), ma perché farne una questione formale? I libri sono libri e (a torto o ragione) possono essere oggetti di culto e cultura; ma i testi scolastici spesso sono altra cosa. Spesso sono una semplificazione per il lavoro dei docenti e,  approssimando per eccesso, mi sento di affermare che un bravo insegnante potrebbe anche farne a meno, e non sarebbe un errore o una stravaganza da reprimere.
I libri di testo, che è d’obbligo adottare nelle scuole, rappresentano anche un lucroso affare, un business per gli editori.
Le famiglie lo sanno bene, ma lo sanno ancor meglio le case editrici medesime che s’ingegnano a modificare capitoletti e paragrafi per allestire nuove edizioni aggiornate, rivedute e corrette per costringere ad acquistare il nuovo e a lusingare qualche docente per indurlo all’adozione e alla conferma.
Non tutto si può ridurre al discorso del denaro: ma è pur vero che se le famiglie investono centinaia di euro per acquistare è corretto ascoltarle su tutte le loro esigenze e perplessità e non tentare di metterle in condizioni di soggezione pseudo-culturale o d’altro tipo. Insomma secondo me aveva ragione l’impresari di pompe funebri: “che articoli avete? che ci volete far comprare?” e, di conseguenza… “è proprio necessario farci spendere tanto denaro?”.
Professori abbassate il ponte levatoi e non alzate troppa polvere, una buona ragione si può, si deve spiegare con semplicità. Altrimenti ha ragione la Carlucci  quando strologa da par suo sulla imparzialità (vera o presunta) dei testi scolastici. Se le ragioni della scuola sono buone allora è giusto dirle in forma chiara e dimostrando competenza. Altrimenti lanciare segnali di sdegno e insofferenza verso le ingerenze di Carlucci, di Pinco Pallino o del malcapitato impresario-genitore di turno serve solo a rendere grottesca (o funerea) la situazione dell’insegnante che adotta testi vecchi, di vintage o finto-nuovi senza perplessità e considerandolo un suo sacro privilegio. Del resto, considerando l’abbondanza delle fonti di informazione e di testi scaricabili gratuitamente dalla rete potremmo dire che i libri scolastici vivono di una vita artificiale, ma che anche la scuola non sta tanto bene.