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Donna adesso. In meno di 100 parole – di Mariaserena

Nonna Maria, nata a fine 800, per marito e figli (sei) era regina di fatto in casa sua dove c’era rispetto tra tutti e soprattutto verso le persone e rispettivi ruoli.

Maria decideva ed era semplicemente ben fatto per tutti, a prescindere. Come lo so? Da come era mio padre con mia madre. Meraviglioso. Non per tutte è così: ci sono ancora donne costrette a render conto al marito sardonico e criticone (o peggio) di tutto: da cucina e figli, ad azioni e pensieri veri e presunti. Perché i costumi cambiano, ma maschilismo ed educazione sbagliata no. Grazie Nonna.

OPPORTUNITÀ DIVERSE E GENERAZIONI A CONFRONTO – di Mariaserena

maniAccanto a me che scrivo tempestando la tastiera c’è il lettino del mio secondo nipotino che dorme. Guardo il suo sonno meraviglioso (quale altro aggettivo potrei usare, e vorrei anche mettere la M maiuscola) e non posso non chiedermi se anche lui finirà nel trita cervelli in cui tanti, troppi giovani e meno giovani sono dolcemente finiti.

Spero di no, spero che l’anima umana rimanga almeno per i bambini, spero che arrivi una svolta e si torni ad alzare la schiena, a togliere gli occhi da troppi display, per levare gli occhi alle stelle.

Ma se anche non arrivasse, e non la spero a breve, mi chiamo responsabile di quello che accadrà in futuro e mi chiedo guardando la culla: cosa sono i bambini? Mattoni da inserire in un muro in mezzo ad altri mattoni uguali o da livellare, scalfire, limare perché si adattino al singolo spazio che gli è destinato?

No, non sono mattoni. Ma lo diventeranno. Dipende da ciascuno di noi.

 

Quello che è successo negli ultimi quarant’anni è dipeso dall’attuazione di un progetto di demolizione che ha colpito sia la cultura sia l’istruzione, sia, e soprattutto, la trasmissione del sapere pragmatico e sociale insieme ai valori fondanti ogni singola nostra famiglia, comunità, paese e città.

Quello che è successo è sotto gli occhi, ma si distoglie lo sguardo e si reagisce dicendo “che possiamo fare?”.

Si può fare pochissimo se vogliamo farlo comodamente, ossia senza spostare nulla nello schema rassicurante, confortevole pur se miserabile in cui siamo precipitati.

Si può fare quello che hanno fatto i nostri predecessori (dai nonni in su, risalendo all’indietro) se fossimo capaci di dare anche vita e sangue per le nostre libertà e le nostre dignità. Ma già, le parole vita e sangue disgustano a meno che non se ne parli in un rassicurante approfondimento da talk-show in cui la sigla incornicia chiude ogni storia tra saccenti e scosciate di turno.

Perché questo mio amaro scontento?

Perché è facile dire alle generazioni precedenti: “voi avete avuto opportunità che noi non abbiamo”.  Questo si dice, ancora una volta, parlando da schiavi col cervello tritato; questo è il ritornello che i media e i politici insieme alla più titolata finanza mettono in bocca ad una gran parte di nostri presunti giovani tra i 25 e i 40.

Queste sono sciocchezze. Ma sciocchezze criminali.

I vostri vecchi e i loro figli, e ancora ce ne sono e vi dà a volte impiccio vederveli intorno, se la sono vista con un regime totalitario orribile che però è stato liquidato in vent’anni.

Hanno avuto la guerra con migliaia di giovani al fronte e la guerra in casa, anzi casa per casa: violenze, stupri, fuciliazioni, rastrellamenti e l’hanno risolta in meno di cinque anni.

Hanno ricostruito, anzi hanno costruito dalle fondamenta, un’Italia in cui non solo non c’era lo stato sociale, ma non c’era nemmeno la casa e il pane, l’acqua corrente e le medicine.

E voi pensate che le “opportunità” che voi non avete e che noi avremmo avuto siano arrivate con la cicogna?

Ebbene io vi dico che molti di voi, con questa mentalità, non avrebbero sopportato non solo il regime, la guerra, la resistenza, l’occupazione tedesca, la fame, la morte dei cari e le violenze del dopoguerra, ma nemmeno la mia maestra di terza elementare (l’aguzzina suor Livia), nemmeno le mie professoresse di latino o matematica delle medie.

Sarebbero scappati tra i leggins della mamma e lei, appena tornata  di fretta dai suoi impegni, avrebbe telefonato all’avvocato per far causa alla scuola.

Per questo vi dico: io mi chiamo responsabile anche di mio nipote, pur sapendo bene che i primi e più importanti per lui sono mamma e papà. Lo dico perché chi si chiama responsabile per una vita intera non si tira indietro mai.

E voi allora che fate?

Continuate a prendervela con le mancate opportunità ripetendo gli slogan del signor Draghi?

Allora accettate pure quest’ultima esca e la demolizione che frantuma l’ultimo legame sociale ormai labile, ma che comunque infastidiva ancora il potere mediatico-plutocratico (ossia dell’informazione al guinzaglio della finanza internazionale) e continuate pure a pensare che una volta spacciato l’uomo di Arcore tutto sarà più bello e splendente che prima. Magari!

E soprattutto continuate a contrapporre l’io al tu, il voi al noi.

E qualcuno  trionferà.

Tarderà molto a nascere, se nasce, una generazione nuova.

A chi, come me, si chiama e si chiamerà sempre responsabile toccherà una nuova sconfitta, ma statene pur certi, non ci sentiremo vinti.

Il cielo stellato delle virtù civili e dei valori morali indicherà sempre la strada, e qualcuno, prima o poi, alzerà di nuovo gli occhi al cielo tenendo bene i piedi in terra e le mani pronte al lavoro, ma la schiena dritta.

Non un batterio, ma una mentalità killer può distruggerci – di Mariaserena Peterlin

Una mentalità killer.

Ecco cosa ci distruggerà: non un batterio, ma una mentalità killer: autoreferenziale, egoista e che rigenera se stessa per gemmazione. E genera persone-pattume ossia da gettare.
I sintomi? Evidenti in chi ne è colpito. La sindrome della mentalità killer è contratta quando si è troppo preoccupati per se stessi, troppo attesi ad ottenere gratificazioni, troppo assillati a che un vantaggio non sfugga, troppo immersi nella dimensione personale, troppo poco generosi. Troppo. E di questi troppo potremmo aggiungere tanti altri.
Siamo diventati costruttori di ponti levatoi, progettisti di autopromozione, accumulatori di gratificazioni personali, aedi di autocommiserazione o autocelebrazione, raccoglitori di simpatie contro.
La malattia raggiunge uno stadio avanzato quando accade che, se qualcosa non piace o va male, si è talmente troppo assorti a cercar di dare responsabilità agli altri che ci si auto legittima al chi se ne frega,io penso per me.
C’è, come sempre, chi approfitta della situazione.
Per far solo un esempio ne approfittano le agenzie della pubblicità pronte a somministrare una terapia placebo che fa in modo che si possa ascoltare senza nessun sussulto frasi-spot come “perché io valgo” (e gli altri no?), “perché il lusso è un diritto” (per chi?), “tutto intorno a te” (e al prossimo i resti?).
 
Nella fase terminale della mentalità killer non si perde la vita, ma si perde il nostro essere umani, si perde l’anima naturale in dote alla nostra umanità; questa perdita è evidente quando ci si comporta dissennatamente con i più piccoli e i più giovani.
E’ allora che si decide che, prima dei figli o dei ragazzi che ci sono affidati, veniamo noi con tutte le nostre esigenze.
E’ in questa fase che si stabilisce che il bambino abbia tutto, ma poi lo si abbandona e dimentica in automobile perché si hanno impegni prioritari in testa; nei casi un po’ meno gravi (ma comunque avanzati) lo si scarrozza su e giù per le corsie dei centri commerciali o lo si scorda al recinto del parco giochi invece di badarlo lasciandolo, però, giocare con amici da lui medesimo scelti liberamente; oppure preferiamo inquadrarlo in attività o in feste organizzate in cui gli amichetti/e sono selezionati da noi oculatamente: ad  uno ad uno.
 
Ecco cosa siamo diventati. Uomini fummo ed or siam fatti egoisti ed individualisti.
Molti genitori si considerano bravi quando abbondano in autostima “perché noi valiamo”.
Molti insegnanti si reputano egregi quando progettano qualcosa che li metta in evidenza presso la gerarchia scolastica o il territorio circostante che, come un vero feudo, sta “tutto intorno a te”.
 
Non è così che si costruisce un futuro migliore. Non è così che cambieremo questa società, della quale inanemente  ci lamentiamo, ma che coltiviamo ottusamente.
 
Però io sono ottimista. Credo molto nelle generazioni dei giovanissimi che hanno cominciato a gridare “Che palle! lasciateci stare!”
Ecco loro forse sì. Con loro le cose cambieranno.
 
Ma nel frattempo il pattume rimane pattume.
E sarebbe bene cominciare a dirlo chiaramente prima di esserne contagiati.