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I bambini ci sorprendono?

Non è per ostinarsi sull’argomento, ma la questione #petaloso a me pare davvero un sintomo, anzi direi meglio una sindrome della abituale scarsa modalità di relazione con l’infanzia che, invece, si dovrebbe ascoltare sempre.
In realtà il bambino, e certamente non solo quel bambino, tende liberamente a creare, inventare, fare: questo si chiama, o si può chiamare anche, gioco.
Il gioco è con le cose, gli animali, le persone, le occasioni, ma sarebbe meglio più in generale dire: con le sue relazioni verso l’esterno di sé e verso se stesso.
Un bambino gioca coi suoi piedi, incrocia gli occhi, prova a sputare e magari fa anche una gara di sputo o di pipì (quello lo fanno i maschietti) per vedere chi arriva più lontano.
In questo gioco, a un certo punto, entra anche il linguaggio verbale.
Potrei elencare,e non solo lo potrei io ma tanti genitori, le parole o i giochi di parole “inventate” dalle mie figlie da piccole (e non solo da piccolissime).
Non ci si dovrebbe sorprendere.
La cosa sorprendente, caso mai, potrebbe essere che quel bambino specifico si sia messo a giocare con le parole a scuola; luogo di solito in cui si adotta un codice e ci si attiene alla regola.
In realtà quello che sorprende me è che la maestra si sia sorpresa.
Ma la sorpresa è spesso un momento bello, meglio, no?

PS: ho letto da qualche parte che una arguta persona ha giustamente detto che petaloso è un effetto indotto dal Banderas che fabbrica il biscotto “inzupposo”. Io penso abbia visto giusto.
Ma tutto sommato forse è anche meglio sorvolare.

Qualche idea sulla scuola? Ma non solo dagli addetti ai lavori

                                      A che SERVE la SCUOLA?

Breve premessa: ho scritto questo post alcuni mesi fa; mi ripromettevo di riprenderlo per farne un saggio breve, proprio sullo stile dei temi di esami di stato. Ma oggi lo pubblico così com’è. Sono stanca di bibliografie che mettono in evidenza solo gli autori. Provo, invece, a dire come la penso.

La scuola è per tutti: è  così realmente e, al di là delle affermazioni ufficiali, abbiamo davvero un’istruzione per tutti?
Cosa fa sì che, nei fatti, il nostro sistema scolastico faccia ancora registrare un alto tasso di abbandono e che una Ministro, recentemente passata ad altre attività, abbia registrato come un successo l’aumento del numero degli studenti bocciati?
Dunque, si sarebbe tentati di concludere, nella nostra scuola, esiste una quota di esclusione inevitabile e comunque necessaria a garantire i progressi degli studenti apprezzati come i migliori?
Nel secondo dopoguerra abbiamo creduto nell’alfabetizzazione di massa, è stato alzata l’età dell’obbligo scolastico ed è stata realizzata la scuola media unica.Abbiamo assistito a una fase che potremmo definire di euforia scolastica. Non solo gli insegnanti si son fatti ricercatori di metodi e sperimentatori di pratiche, non solo c’è stata una fase di consenso generale nei confronti della scuola pubblica, ma non c’è stata famiglia che non abbia voluto fortemente l’istruzione per i figli, magari fino alla laurea.Studiare significava crescere socialmente ed economicamente, e le case delle famiglie più semplici mettevano in evidenza, in piccoli scaffali, le raccolte delle enciclopedie acquistate a rate. (Ricordi che suscitano tenerezza in chi ha vissuto quei tempi, seppure bambino.)

Oggi, da più parti, si levano invece motivate opinioni di coloro che lamentano il fallimento (vero, parzialmente vero, presunto) dell’istruzione di massa e, soprattutto, prevalgono con insistenza e impatto mediatico di grande effetto, le teorie dell’eccellenza, del merito e della meritocrazia.
Si organizzano manifestazioni nazionali che premiano i talenti, anche nello studio. Si celebra l’esame di stato ottenuto con il massimo dei voti e la lode, recentemente istituita. Nella realtà dei fatti è inevitabile e naturale registrare che non tutti i ragazzi abbiano lo stesso talento e possano ottenere lo stesso livello nei risultati scolastici; infatti non soltanto registriamo un aumento dell’abbandono, ma constatiamo sovente che un risultato positivo può essere durevole o fragile e, passando da un ordine degli studi ad un altro fino all’Università i successi si diradano.Ma tutto questo è sufficiente a farci dire che l’istruzione non è per tutti? In realtà è probabilmente l’istruzione omologante a non essere per tutti. In realtà è applicare per tutti lo stesso metodo e gli stessi processi di apprendimento che crea l’esclusione. Spesso si proclama il valore della differenza quando si applica ad ambiti graditi o che ci risolvono i problemi, ma stentiamo ad accettarlo quando si parla dell’altro intendendo tutti gli altri. La scuola è in grado di accogliere e di prendersi cura, allo stesso modo di bambini, ragazzi, adolescenti in fase di ribellione, studenti con modalità di apprendimento diverse, ragazzi problematici?

Nel campo dell’educazione i tempi non sono automatici e i risultati nemmeno. Non vale il proverbio che il buon giorno si vede dal mattino, casomai si dovrebbero applicare i proverbi dell’agricoltura (ne cito uno pescato tra i tanti) : La ricchezza del contadino sta nelle braccia e chi ne vuole se ne faccia.” il che significa processi lunghi, costante impegno, flessibilità, capacità di relazionarsi con l’altro anche riscrivendo un programma o un piano di lavoro a misura della realtà classe.
Alcuni insegnanti lo fanno. Probabilmente la messa in pratica dell’idea dell’alfabetizzazione di massa è stata condotta anche velleitariamente ed è anche vero che non tutto è andato bene. Ma rinunciare all’idea di riconoscere il diritto allo studio come una garanzia proposta dalla Costituzione è una doppia grave sconfitta.
Infatti  se l’accettiamo noi rinunciamo non solo a perseguire all’obbiettivo di garantire il diritto allo studio, ma anche all’opportunità di usare un importante strumento culturale che può affrontare e risolvere in modo equo e qualificante il problema dell’integrazione multiculturale non solo delle ragazzi di seconda generazione, ma anche degli adulti immigrati o, per dir meglio, migranti. Rinunceremmo altresì a creare strumenti culturale avversi e strategicamente efficaci contro questa devastante crisi di sistema (economica e culturale)  che non sarà risolta senza la partecipazione dei giovani, dei nuovi cittadini, di tutti. Insegnanti compresi. Ogni istituzione oggi è chiamata a rispondere della sua utilità in termini di bilancio. E’ inevitabile in tempo di crisi, ma dovrebbe esserlo sempre.
Perché dobbiamo lottare per la scuola pubblica? Non per alzare sterili grida o vani lamenti su retribuzioni, orari, riconoscimento sociale; ma perché lottare significa anche andare avanti, incamminarsi verso nuove strade. Lottare significa anche fare ricerca, individuare strumenti, sperimentare e verificare percorsi. Alcuni di noi sono nella scuola come insegnanti, dirigenti, formatori. Altri lo sono come studenti, altri desidererebbero aggiornarsi sia in campo professionale sia imparando la lingua. Tutti costoro sono, come evidente, parti in causa. E nel frattempo non possiamo, non dobbiamo pensare che chi ha terminato dei suoi studi, possa dimenticare la scuola. Possiamo infatti chiudere una fase, ma la scuola non ci lascerà; la scuola è dentro di noi. Purtroppo può accadere che lasci tracce negative, ma non è sempre così. Chi si esprime con amarezza ha certamente buone ragioni. Ma la riflessione e la proposta su questi temi è, dev’essere a mio avviso, sociale e non individuale.

Note non a margine
1: Quando ci si interroga tra insegnanti chiedendoci – come fare ad appassionare gli studenti ad argomenti “ostici”, come destare l’interesse che non c’è – dovremmo mettere in discussione gli argomenti, noi stessi, altri fattori o cosa? La questione è cruciale e… “ostica”.
2: Il precariato quanto incide sulla qualità dell’insegnamento?

Creatività e fertilità della mente: come una metafora di vita

Disegno di una bimba: Un papà e una mamma con una bimba nella pancia (è la sua storia)

Omologati e inscatolati, catalogati e selezionati per categorie, come le uova con la data di deposizione+il calibro+il colore del guscio+il cartoncio 2×6 cosa diventiamo? Uova da mangiare e non da nascita. Siamo sterili e non creiamo né vita né idee. E’ facile allora cadere nelle trappole. E la causa risale anche ai “danni dell’educazione” che è quasi sempre omologante ed omologata su schemi che prevedono tante cose, tante regole, tante strutture. E ci dimentichiamo di trasmettere esperienza, di narrare e ascoltare. Io penso che sia più bello e giusto trasmettere per comunicare che non comunicare per istruire. Raccontiamoci le cose, quelle vere e nostre. Non vi siete accorti che il “gossip” è un’altra droga?
Guardate questo disegno: un papà e una mamma con un bimbo nella pancia… 🙂 by nipotina quando aveva 4-5 anni . Speriamo che la scuola non faccia danni…

Ascoltare una storia, ascoltare la Storia

Luglio 1942, Campagna di Russia. Ragazzi ventenni in tradotta; venti giorni di viaggio verso il fronte russo. Papà è il secondo da sinistra, in piedi accanto alla tradotta.

Può accadere che siano le cose a parlarci: ad esempio riordini un cassetto e trovi non solo le vecchie foto (che sono sempre chiacchierone) ma anche uno scontrino, dei fogli, una antica relazione sul programma svolto durante l’anno scolastico, o il quaderno di scuola di un figlio.

Io ho trovato un foglio che riguarda il mio papà; questo foglio dice tanto. È intestato:

DISTRETTO MILITARE DI VICENZA

Ufficio Reclutamento e Matricola

La data è 29/11/77.

Nel ’77 papà aveva già 58 anni; la comunicazione gli chiede (trascrivo) “con cortese urgenza” di “compilare una dettagliata relazione relativa al servizio militare da Lei prestato dal 1941 (Chiamata alle armi) al luglio 1942 (partenza per la Russia)”. Gli chiedono anche di allegare “documenti probatori” di quanto lui deve dichiarare nella relazione.

Ricordo molto bene che a papà quella richiesta non fece piacere, così come non gli è mai piaciuto parlare del tempo della guerra.

A distanza di tanto tempo, e adesso che lui se ne è andato, non posso non lasciar parlare quelle date ed ascoltarle.

1941: chiamata alle armi. E lui aveva solo 22 anni

1342: partenza per la Russia. E ne aveva 23

Come non ascoltare il confronto tra un ventiduenne d’oggi e lui?

Tra quelle carte c’è anche la sua fedele e irreprensibile relazione, con tutte le date, i luoghi, i trasferimenti specificati uno per uno.

Ad esempio una nota dice tanto:

“Partito da Verona in tradotta coi complementi C.S.I.R. per la Russia 8 luglio 1942”. Giunto in zona si operazioni (fronte Russo) il 28 luglio 1942.”

Venti giorni di viaggio in tradotta.

 E in fondo al foglio un’altra nota conclusiva.

Non ho documenti da allegare in quanto tutto mi è stato sottratto il giorno 8 settembre 1943”.

Tutto. Le carte parlano.

Forse siamo noi che dovremmo parlare un po’ meno.