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Ascoltare l’altro

*** da una forma ad un’altra, da due colori un altro colore ***

Imparare è una meravigliosa avventura, sempre. Mi piace imparare e vorrei farlo finché respiro. Penso che si impari molto con il confronto e il dialogo con l’altro. Non ci sono abbastanza pagine per imparare quello che ci trasmette un contatto, uno sguardo, un respiro, un odore. Potremmo imparare anche dai nostri bambini piccoli che, anche quando non sanno ancora parlare né esprimersi sono tuttavia, fin da subito, una trasmittente potentissima di segnali, notizie, segni e impulsi.

Privarsi dell’incredibile avventura di imparare quando l’altro sia una piccola creatura significa perdere o non ritrovare una bella parte di se stessi. Per viverla, invece, ci basta disporre all’ascolto i nostri sensi e la nostra anima.

L’ascolto attento è una disposizione della persona al contatto con l’altro. Sommergere l’altro di se stessi, delle proprie categorie, delle proprie interpretazioni significa annientare la reciproca comunicazione. Penso sia preferibile tacere che alzare la voce, nel silenzio c’è infatti un motivo profondo che sovente non si sa interpretare.

Accade di tacere e che il nostro interlocutore si soddisfi di se stesso pensando di avere prevalso; invece in quel momento l’altro è in fuga, e nella fuga rifiuta il potere debordante delle parole altrui. I pensieri, allora,  dirigono altrove e sanno stare in attesa di se stessi.

Non è vero che quando non si parla si perde, come si sente dire, il filo del discorso: semplicemente lo raccattiamo e riavvolgiamo il gomitolo. Lo stenderemo altrove e con altri disegni; la perdita è, se perdita c’è, esclusivamente per l’altro e nell’altro che ha rinunciato a cercare, a sua volta, il contatto e l’armonia uscendo da sé.

Avvistare una buona occasione, da un Minareto

Leggo nel blog Mutter Courage di una cara amica insegnante, germanista e valente traduttrice un brano che, come a volte accade, mi porta momentaneamente in un’altra direzione, alla ricerca del tempo perduto.

Scrive Anna  Maria: Mi succede altresì di inserire intenzionalmente, nel bel mezzo del lavoro su un testo letterario, nel delicato passaggio dalla contestualizzazione alla storia della ricezione (il testo letterario è La parabola degli anelli, da Nathan il saggio di Lessing, il quale a sua volta rielabora una novella di Boccaccio), la parola “minareto” e di ricevere in cambio, dallo stesso volenteroso studente, la domanda “Ma che è un minareto?”. Alla domanda viene data una risposta, che parte, come ritengo doveroso e proceduralmente corretto, dal suo significato originario, per poi allargarsi a contesti d’uso e connotazioni del termine. “

Flash! Ecco quello che mi manca della scuola, la cartina di tornasole della domanda imprevista, del contropiede su un significato che appare scontato ma non lo è  : ” Ma che è un minareto?”
Sarebbe certamente accaduto con ragazzi delle medie, o di media superiore. E in quel caso il libro, la nota a commento, il dizionario non bastano; debbono entrare in gioco, a meno di non volere perdere una buona occasione per dirigere bene la loro curiosità di ragazzi, l’empatia, la connessione, la trasmissione da insegnante a studente

La domanda su un significato rappresenta quella specie dell’ “apparir del vero” che giustifica quello che tu, insegnante, sai. E lo puoi giustificare facendogli prendere davvero senso solo nel trasmetterlo e riuscendo non tanto spiegarne il senso come un dizionario, ma contestualizzandolo e dimostrando quel legame che, per antiche strade sempre nuove, ci conduce al futuro percorrendo il margine del quotidiano.

Altrimenti la nostra sapienza è sterile mestiere.

Qualche idea sulla scuola? Ma non solo dagli addetti ai lavori

                                      A che SERVE la SCUOLA?

Breve premessa: ho scritto questo post alcuni mesi fa; mi ripromettevo di riprenderlo per farne un saggio breve, proprio sullo stile dei temi di esami di stato. Ma oggi lo pubblico così com’è. Sono stanca di bibliografie che mettono in evidenza solo gli autori. Provo, invece, a dire come la penso.

La scuola è per tutti: è  così realmente e, al di là delle affermazioni ufficiali, abbiamo davvero un’istruzione per tutti?
Cosa fa sì che, nei fatti, il nostro sistema scolastico faccia ancora registrare un alto tasso di abbandono e che una Ministro, recentemente passata ad altre attività, abbia registrato come un successo l’aumento del numero degli studenti bocciati?
Dunque, si sarebbe tentati di concludere, nella nostra scuola, esiste una quota di esclusione inevitabile e comunque necessaria a garantire i progressi degli studenti apprezzati come i migliori?
Nel secondo dopoguerra abbiamo creduto nell’alfabetizzazione di massa, è stato alzata l’età dell’obbligo scolastico ed è stata realizzata la scuola media unica.Abbiamo assistito a una fase che potremmo definire di euforia scolastica. Non solo gli insegnanti si son fatti ricercatori di metodi e sperimentatori di pratiche, non solo c’è stata una fase di consenso generale nei confronti della scuola pubblica, ma non c’è stata famiglia che non abbia voluto fortemente l’istruzione per i figli, magari fino alla laurea.Studiare significava crescere socialmente ed economicamente, e le case delle famiglie più semplici mettevano in evidenza, in piccoli scaffali, le raccolte delle enciclopedie acquistate a rate. (Ricordi che suscitano tenerezza in chi ha vissuto quei tempi, seppure bambino.)

Oggi, da più parti, si levano invece motivate opinioni di coloro che lamentano il fallimento (vero, parzialmente vero, presunto) dell’istruzione di massa e, soprattutto, prevalgono con insistenza e impatto mediatico di grande effetto, le teorie dell’eccellenza, del merito e della meritocrazia.
Si organizzano manifestazioni nazionali che premiano i talenti, anche nello studio. Si celebra l’esame di stato ottenuto con il massimo dei voti e la lode, recentemente istituita. Nella realtà dei fatti è inevitabile e naturale registrare che non tutti i ragazzi abbiano lo stesso talento e possano ottenere lo stesso livello nei risultati scolastici; infatti non soltanto registriamo un aumento dell’abbandono, ma constatiamo sovente che un risultato positivo può essere durevole o fragile e, passando da un ordine degli studi ad un altro fino all’Università i successi si diradano.Ma tutto questo è sufficiente a farci dire che l’istruzione non è per tutti? In realtà è probabilmente l’istruzione omologante a non essere per tutti. In realtà è applicare per tutti lo stesso metodo e gli stessi processi di apprendimento che crea l’esclusione. Spesso si proclama il valore della differenza quando si applica ad ambiti graditi o che ci risolvono i problemi, ma stentiamo ad accettarlo quando si parla dell’altro intendendo tutti gli altri. La scuola è in grado di accogliere e di prendersi cura, allo stesso modo di bambini, ragazzi, adolescenti in fase di ribellione, studenti con modalità di apprendimento diverse, ragazzi problematici?

Nel campo dell’educazione i tempi non sono automatici e i risultati nemmeno. Non vale il proverbio che il buon giorno si vede dal mattino, casomai si dovrebbero applicare i proverbi dell’agricoltura (ne cito uno pescato tra i tanti) : La ricchezza del contadino sta nelle braccia e chi ne vuole se ne faccia.” il che significa processi lunghi, costante impegno, flessibilità, capacità di relazionarsi con l’altro anche riscrivendo un programma o un piano di lavoro a misura della realtà classe.
Alcuni insegnanti lo fanno. Probabilmente la messa in pratica dell’idea dell’alfabetizzazione di massa è stata condotta anche velleitariamente ed è anche vero che non tutto è andato bene. Ma rinunciare all’idea di riconoscere il diritto allo studio come una garanzia proposta dalla Costituzione è una doppia grave sconfitta.
Infatti  se l’accettiamo noi rinunciamo non solo a perseguire all’obbiettivo di garantire il diritto allo studio, ma anche all’opportunità di usare un importante strumento culturale che può affrontare e risolvere in modo equo e qualificante il problema dell’integrazione multiculturale non solo delle ragazzi di seconda generazione, ma anche degli adulti immigrati o, per dir meglio, migranti. Rinunceremmo altresì a creare strumenti culturale avversi e strategicamente efficaci contro questa devastante crisi di sistema (economica e culturale)  che non sarà risolta senza la partecipazione dei giovani, dei nuovi cittadini, di tutti. Insegnanti compresi. Ogni istituzione oggi è chiamata a rispondere della sua utilità in termini di bilancio. E’ inevitabile in tempo di crisi, ma dovrebbe esserlo sempre.
Perché dobbiamo lottare per la scuola pubblica? Non per alzare sterili grida o vani lamenti su retribuzioni, orari, riconoscimento sociale; ma perché lottare significa anche andare avanti, incamminarsi verso nuove strade. Lottare significa anche fare ricerca, individuare strumenti, sperimentare e verificare percorsi. Alcuni di noi sono nella scuola come insegnanti, dirigenti, formatori. Altri lo sono come studenti, altri desidererebbero aggiornarsi sia in campo professionale sia imparando la lingua. Tutti costoro sono, come evidente, parti in causa. E nel frattempo non possiamo, non dobbiamo pensare che chi ha terminato dei suoi studi, possa dimenticare la scuola. Possiamo infatti chiudere una fase, ma la scuola non ci lascerà; la scuola è dentro di noi. Purtroppo può accadere che lasci tracce negative, ma non è sempre così. Chi si esprime con amarezza ha certamente buone ragioni. Ma la riflessione e la proposta su questi temi è, dev’essere a mio avviso, sociale e non individuale.

Note non a margine
1: Quando ci si interroga tra insegnanti chiedendoci – come fare ad appassionare gli studenti ad argomenti “ostici”, come destare l’interesse che non c’è – dovremmo mettere in discussione gli argomenti, noi stessi, altri fattori o cosa? La questione è cruciale e… “ostica”.
2: Il precariato quanto incide sulla qualità dell’insegnamento?

Insegnare è imparare – di Mariaserena Peterlin

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