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Contro quella #scuola #migliore_in_classifica

Non mi ricordo nemmeno quando sia iniziato questo ritorno all’oscurantismo pedagogico. Mi pare da Moratti. Certo Gelmini ci mise sopra una quota allucinante di genuina ignoranza. Ma in troppo pochi l’abbiamo denunciato.
Penso sia accaduto proprio che il ritorno all’oscurantismo sia iniziato da quando si è cominciato a diffondere un virus (usiamolo questo termine) : quello del persuadere perfino gli insegnanti che la #scuola dovesse esaltare il cosiddetto #merito e nel contempo, ma forse proprio per questo, essere diretta come un’azienda. E via coi ds.
Peccato che una Azienda lavori e generi prodotti, di solito conformati a un modello, mentre la Scuola deve lavorare in funzione sociale e di crescita di esseri umani.
Naturalmente so bene che questa definizione è imperfetta.
La scuola è, infatti, relazione, la scuola è dialogo.

Su può scegliere di stare dietro alla lavagna, per scelta o per depotenziare uno strumento che può essere simbolo, ma anche livella

Perché se non ascolti non insegni.
Se non ascolti non impari.

La stupida e classista direttiva di valutare secondo metodi oggettivi genera risultati non solo scadenti, ma addirittura nocivi.
Gli allievi, di qualunque età, non sono prodotti da sfornare conformati a modelli (come carburatori, abiti, profumi, pagnotte, uova o navi mercantili).
Gli allievi sono persone, sembra banale?
Ma se non si vuole morire di inutile noia reciproca è necessario vivere la scuola nella convinzione che ognuno insegna/impara non in modo oggettivo (che poi non significa proprio niente!) ma in modo diverso. Fratelli diversi.
Solo che questo ragionamento cozza contro la prassi, contro il conformismo, contro il classismo.
E soprattutto contro la #meritocrazia.

E siccome questo modello sociale, contro cui non smetterò fino all’ultimo respiro di resistere, chiede non vivacità e pensiero, ma invece conformismo, passività, abitudine e quiete sonnolenta della ragione, allora questo modello sostanzialmente classista e antidemocratico trasforma i cervelli pensanti in tubi digerenti e consumatori.

Chi consuma si annoia.
Chi costruisce si diverte. Dunque vietato costruire!
Il divertimento, infatti, non lo possiamo decidere noi, tanto meno se uguale per tutti.
Dovremmo quindi tutti odiare la scuola che vince classifiche (ma a quale prezzo?) e viene valutata (ma come poi?) e classificata come la “migliore”.

Ma… e i giovani?

Ci sono persone giovani che, anche oggi, pensano alla formazione di calcio della nazionale, alla loro promozione personale, giocano; tutte belle cose, ma lasciatemi dire una cosa antipatica, e pazienza se può sembrare molto antipatica, mi è venuta in mente dialogando con amici sinceramente appenati e in lutto per la tragedia dei morti in mare.
Purtroppo amaramente penso che troppi “giovani” si lamentano, ma poi vorrebbero che la rivoluzione… gliela facessero mamma e papà, o almeno i nonni. E vi giuro che lo penso seriamente. Ovviamente per rivoluzione intendo il mettersi in moto attivamente, esercitare pressione, usare la rete, proporre, scrivere ecc ecc ma in modo decisamente attivo e non dal divano o dal tavolo con la birretta. Sono consapevole che sono stati come “depotenziati” dalla precarietà, ma questa giustificazione non mi basta.  Naturalmente molti miei amici giovani, che macinano lavoro e impegno, sanno che non parlo di loro.

Ricostruire, da fuori

Provo a pensare che la fase che siamo vivendo possa essere non peggiore di altre e che anche in altri tempi, vicini o non, ci sono stati motivi di scontento, di delusione o addirittura di disperazione, e probabilmente è davvero così. E poi disperazione, delusione e scontento non si addicono a persone che comunque mantengano e coltivino un progetto di vita e una visione proiettata nel tempo, anche se, forse, in un tempo lontano.
No, non bisogna cedere; ma resistere non significa ostinarsi a vedere il bello e il buono dove non ci sia. Non significa nemmeno costruire un castello mentale di labili carte illusorie. Dobbiamo resistere e non cedere perché è proprio la nostra resa che, come tutto lascia pensare e sta a dimostrare, stanno aspettando.
Probabilmente siamo di fronte a un disegno sommessamente violento che ha previsto per noi solo un ruolo passivo e subalterno, ma più ci rannicchiamo e chiudiamo più la subalternità potrebbe crescere.
Vedo tuttavia incombere un’ulteriore più sottile violenza: la fallace tentazione del consenso e della partecipazione per cambiare da dentro una delle facce di questo sistema nato da tanti padri ma che una madre maligna si è adattata a comporre mostruosamente.
Siamo arrivati a dire che le ideologie non servono, che sono storicamente superate, che i partiti sono vecchi carrozzoni, che le nuove guide delle nostre scelte sono il mercato e quindi la competitività. Tutto si compra e tutto si vende: dalla nascita alla morte, dalla vita alla sopravvivenza, tutto ha un costo e tutti siamo chiamati a pagarlo.
Non è semplice sintetizzare e proporre: tuttavia ci provo. Io credo e spero nell’utilità di contribuire ad un pensiero diverso da costruire non da dentro, ma proprio da fuori. Potrebbe essere necessario ricominciare riconoscendosi in persone che tornano alla vecchia Costituzione e ai nostri tradizionali valori: lavoro, consorzio umano, famiglia, giustizia sociale, solidarietà, dignità, rispetto e diritti dell’individuo nella reciproca libertà. Credo che la giustizia possa rinascere solo fuori dallo schema, fuori dal sistema e dal linguaggio convenzionale, lontano dalla deferenza al media e dalla soggezione a chi rappresenta le istituzioni, ma le corrompe.
Ci sono ormai troppi contagi nella corruzione, troppe pestilenze morali, troppe compromissioni per poter interagire con quello che c’è e si sta trionfalmente sbriciolando, ma trattiene il potere tra gli artigli.
Solo ritornando a una totale libertà di pensiero possiamo ritrovare il filo sociale e tesserlo, se fosse impossibile trovare sodali è necessario farlo anche da soli, ma i risultati sarebbero minimi, molto meglio farlo insieme agli altri, ai nostri simili.

La ricerca di sé

La vocazione che ci chiama ad un tipo di studio, ad una scelta di vita, ad amare qualcuno appare più come un tornare che un andare.
Si torna, o, per dir meglio, si ritorna per essere completi, perché sappiamo che spezzati non possiamo vivere.
Ci si sente a casa in un’aula di Lettere? Io penso di sì, come ci si sente a casa tra le pareti profumate di legno antico delle vecchie biblioteche, come perdendosi nello sguardo o nell’odore di chi si ama, come lasciandoci attrarre da una vita diversa e forse impervia, ma che vogliamo fortemente.
Ci si sente a casa tenendo per mano un bambino.
Nasciamo e cerchiamo di trovare la nostra orbita naturale, il nostro movimento intorno e verso; nasciamo per tornare là, verso qualcosa che non sapevamo ci appartenesse ma sentiamo che c’è.
Abbiamo bisogno di libertà per trovare noi stessi.